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al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Ha cosi basso concetto dell'umanità, e la sua anima alta gentile e pura l'onora e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita fino al quarantotto, senti che te l'avresti trovato accanto confortatore e combattitore. Pessimista od anticosmico, come Schopenhauer, non predica l'assurda negazione del Wille, l'innaturale astensione e mortificazione del cenobita; filosofia dell' ozio che avrebbe ridotta l'Europa all'evirata immobilità orientale, se la libertà e l'attività del pensiero non avesse vinto la ferocia domenicana e la scaltrezza gesuitica. Ben contrasta Leopardi alle passioni, ma solo alle cattive; e mentre chiama larva ed errore tutta la vita, non sai come, ti senti stringere più saldamente a tutto ciò che nella vita è nobile e grande. L'ozio per Leopardi è un' abdicazione dell' umana dignità, una vigliaccheria. De Sanctis. Saggi critici. Napoli, 1866, p. 338. (9) Leopardi, Epistolario. Ed. cit. Vol. I, pag. 167.

(10) Vedi ciò che scrive in un'altra lettera allo stesso Giordani. „.... Io non tengo le illusioni per mere vanità, ma per cose in certo modo sostanziali, giacchè non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingeniti essenzialmente in ciascheduno; e compongono tutta la nostra vita....

Io non credo che i tristi vivano meglio di noi. Se la felicità vera si potesse conseguire in qualunque modo, la realtà delle cose non sarebbe cosi formidabile. Ma buoni e tristi nuotano affannosamente in questo mare di travagli, dove non trovi altro porto che quello de' fantasmi e delle immaginazioni. E per questo capo mi pare che la condizione de' buoni sia migliore di quella de' cattivi, perchè le grandi e splendide illusioni non appartengono a questa gente; sicchè ristretti alla verità e nudità delle cose, che altro si deggiono aspettare se non tedio infinito ed eterno?,, Epist. Vol. I, pag. 187.

(11)

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Bella virtù, qualor di te s' avvede,
Come per lieto avvenimento esulta
Lo spirto mio; nè da sprezzar ti crede,
Se in topi anche sii tu nutrita e culta.
Alla bellezza tua ch' ogni altra eccede,

O nota e chiara, o ti ritrovi occulta, "
Sempre si prostra; e non pur vera e salda,

Ma immaginata ancor di te si scalda. "

Paralipomeni della Batracomiomachia, pag. 243 di questa edizione.

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(12) Leopardi, Epist. Ed. cit. Vol. I, pag. 303.

(13) Lettere del Giordani al Leopardi, nell' Epistolario del Leopardi, ed. cit. Vol. II, pag. 302.

(14) Se volessi recare dalle lettere del Giordani agli amici suoi tutti i luoghi dov' egli parla del Leopardi, avrei da empire molte pagine. Mi basterà citare qualche cosa di ciò ch'egli scriveva a Pietro Brighenti nel 1819.

Adoro quel povero Leopardi: io mi ammazzo a scrivergli, ed egli a me e queste infami poste e questi infamissimi Governi ci fanno disperare. Cinque lettere gli ho mandato dal 12 febbraio in qua (scrive il 24 marzo); lunghe ed affettuose: niuna gli è arrivata. Una sua dei 12 febbraio pur mi giunse dopo molte perdute: due righe mi arrivano oggi, per avvisarmi perduta quella che poi mi scrisse. Onde io ne impazzisco. Fatemi dunque la carità di ricorrere anche una volta a qualche mezzo straordinario (poichè la posta da Bologna a Recanati sapete che me le smarriva sempre); ricorrete al sublime Corrier protettore: e per risparmiare a voi altra briga, mandategli questa mia lettera medesima; tanto che egli abbia un cenno che io son vivo, e arrabbiato, e innamorato di lui. . ...

S' egli vi mandasse delle sue canzoni da vendere (come io gli suggerii) servitelo diligentemente; perchè sono cose stupende, desiderabili dappertutto: ed egli è il più raro ingegno che oggi viva in Italia, e il più caro giovane del mondo. Giordani, Epistolario edito per Antonio Gussalli. Vol. V, p. 17.

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quell' infelice (il Leopardi) creperà: ma se per disgrazia non muore, ricordatevi quel che vi dico io, che non si parlerà più di nessun ingegno vivente in Italia: egli è d'una grandezza smisurata, spaventevole. Non vi potete imaginare quanto egli è grande, e quanto sa a quest' ora: chi dice che a Recanati non si può saper tutto, (scusatemi) non sa quel che si dica. Imaginatevi che Monti e Mai uniti insieme, siano il dito di un piede di quel colosso: ed ora non ha 21 anni! Oh in Italia nascono ingegni incredibili: ma guai a quelli che ci nascono!, Giordani, Epist. Ed. cit, vol. cit. p. 24. quando saremo insieme a quelle nostre confidenze, colle canzoni alla mano spero che potrò (almeno in massima parte) giustificare la mia ammirazione per l'ingegno di Leopardi, che proprio mi pare stupendo, e tremendo; e la fortuna di Monti è che ha quarantacinque anni più di quell' altro. Ma se Leopardi campa, e se Monti fosse giovane anch' egli, crediatemi che Leopardi sarebbe un sole che eclisserebbe tutti. Crediatemi (ma tenetelo in confessione) che Monti, Perticari, Mai (e se credeste che il signor Giordani fosse qualche cosa), riuniti tutti insieme non fanno la metà dell'ingegno e

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del sapere di questo giovane di 21 anni. Dategli solo dieci anni di vita, e sanità, e traetelo fuori degli orrori in cui vive, e ditemi il primo coglione della terra da Adamo in qua, se nel 1830 in Italia e in Europa non si dirà che pochi Italiani (nei secoli più felici) furono paragonabili a Leopardi. Io vi parrò un matto a dir queste* cose; ma per dio dico quello che penso, e credo fermamente pensare il vero. Voi tenetelo in petto, come segno di amicizia. A suo tempo griderò, e lo dirò a tutti, quando potrà giovare: per ora sarebbe inutile, anzi nuocerebbe. Se arriverò a potervi dare un'idea di Leopardi, esecrerete sempre più il mondo, nel quale esser tale miracolo, ed essere dolorosissimamente infelicissimo sono la stessa cosa. Se vedeste, se vedeste che lettere ricevo io! Solo Dante potrebbe scriverle., Giordani, Epist. ed. cit. vol. cit. p. 26.

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(16) Io tornerò certamente a Firenze alla fine dell' inverno, per restarvi tanto quanto me lo permetteranno i miei piccoli mezzi, già vicini ad esaurirsi: mancati i quali, l'abborrito e inabitabile Recanati mi aspetta, se io non avrò il coraggio (che spero avere) di prendere il solo partito ragionevole e virile che mi rimane. „ Leopardi, lettere al De Sinner, inedite nella biblioteca nazionale di Firenze. (16) Vedi ciò che il Leopardi scrive della religione nell'ultimo capitolo del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, lavoro della sua giovinezza, da lui rifiutato; e il Progetto d'inni cristiani nell'Indice delle scritture di Giacomo Leopardi edite ed inedite disposto per ordine di tempi da P. Pellegrini, in fine del citato volume degli Studi giovanili.

(17) Leopardi, Epistolario, ed. cit., vol. II, p. 85.

(18) " Nato dal conte Monaldo Leopardi di Recanati, città della Marca di Ancona, e dalla marchesa Adelaide Antici della stessa città, ai 29 giugno del 1798 in Recanati. Vissuto sempre nella patria fino all' età di 24 anni. Precettori non ebbe se non per li primi rudimenti, che apprese da pedagoghi, mantenuti espressamente in casa da suo padre. Bensi ebbe l'uso di una ricca biblioteca raccolta dal padre, uomo molto amante delle lettere. In questa biblioteca passò la maggior parte della sua vita, finchè e quanto gli fu permesso dalla salute, distrutta da' suoi studi; i quali incominciò indipendentemente dai precettori in età di 10 anni, e continuò poi sempre senza riposo, facendone la sua unica occupazione. Appresa, senza maestro, la lingua greca, si diede seriamente agli studi filologici, e vi perseverò per sette anni; finchè, rovinatasi la vista, e obbligato a passare un anno intero (1819) senza leggere, si volse a pensare, e si affezionò naturalmente alla filosofia, alla quale, ed alla bella letteratura che le è congiunta, ha poi quasi esclusiva

mente atteso fino al presente. Di 24 anni passò in Roma, dove rifiutò la prelatura e le speranze di un rapido avanzamento offertegli dal cardinal Consalvi, per le vive istanze fatte in suo favore dal consiglier Niebuhr, allora Inviato straordinario della corte di Prussia in Roma. Tornato in patria, di là passò a Bologna. Leopardi, Epist. ed. cit. vol. I, p. 467.

Non dispiacerà agli ammiratori del Leopardi, che a questi brevi cenni sulla sua vita, scritti da lui stesso, io aggiunga ciò che il Ranieri dettò sopra gli ultimi momenti di quella e non potè pubblicare nella Notizia premessa alle Opere dell'amico suo.

Giacomo Leopardi, questo grande e imperdonabile peccato non so se più d'Italia o della fortuna, sostenne, nella sua brevissima vita, una buona parte, si può quasi dire, delle più gravi malattie che si conoscono sotto il sole. Le quali si congiungevano talvolta e s'inserivano si stranamente insieme, che quel rimedio che era medicina all' una, era veleno all'altra. Per tacere di troppe più che non parrebbe credibile, sfidato di tisico dai dottori di Roma nel trentuno, e da quelli di Firenze nel trentadue, nel trentasette mori poscia a Napoli d'idropisia. Nè mai credette nell' uno o nell'altra: ma in non so quale suo misterioso mal di nervi, mediante il quale spiegò fino all'ultimo tutte le più variate, e spesso più manifeste, maniere di morbi che combatterono implacabilmente la sua misera giornata. E insino dopo che gravissimi medici napoletani gli ebbero parlato assai più chiaro ch'io non avrei voluto, mi parlava della incertezza della medicina, del suo mal di nervi non voluto intendere, e degli altri quarant' anni di vita che gli bisognava durare pazientemente, se già la pestilenza non venisse inopinatamente a troncarli.

Questa singolare credenza lo aveva renduto costantemente indocilissimo a tutte le prescrizioni dell' arte; massimamente a quelle della dieta, che, nelle idropisie, sogliono essere, come ognun sa, rigorosissime. Per questa sola parte, le mie preghiere, e insino le mie lacrime, erano riuscite sempre indarno. E, fatto inesorabilmente beffe del latte d'asina, quel di stesso, giusta l'usato, dopo un' abbondante colezione di cioccolatte, desiderò che gli si recasse da desinare mentre ci attendeva già la carrozza che doveva menarci in villa, dove si proponeva di cenare verso le quattro o le cinque della mattina seguente; prima della qual ora non era stato mai possibile di ridurlo nel letto.

Era già scodellata la minestra. Ed egli, postosi a sedere a mensa più gaio del solito, n'aveva già tolte due o tre cucchiaiate, quando rivoltosi a me, che me gli era seduto allato :

perseve

Mi sento un pochino crescere l'asma, mi disse (che così rava di chiamare i naturali sintomi della sua infermità): si potrebbe riavere il dottore?

Questi era il professor Niccolò Mannella, ch' era stato il più assiduo e il più affettuoso de' suoi curanti: uomo d'aurea scienza e di più che aurei costumi, medico ordinario del principe reale di Salerno.

E perchè no? gli risposi. Anzi andrò di persona per esso.

Era uno dei più memorabili giorni della mortalità colerica: e non mi parve stagione da mandar messi.

Io credo che, a malgrado di tutti i miei sforzi, dovette trasparire dal mio viso una qualche piccola parte del mio fiero turbamento. Perchè, levandosi, egli ne motteggiò e ne sorrise; e stringendomi la mano, mi ritoccò della lunga vita degli asmatichi. Andai con la carrozza medesima che ci attendeva; affidandolo a' miei, massime alla mia sorella Paolina, sua consueta astante ed infermiera; la quale egli troppo largamente rimeritò quando usò dirle che solo la sua Paolina di Napoli gli rendeva possibile la lunga lontananza dalla sua Paolina di Recanati.

Trovo in casa il Mannella, che si veste e viene. Ma tutto era mutato. Avvezzo, per un lungo e penoso abito di mortalissime malattie, a sentir troppo frequentemente i messi di morte, il nostro adorato infermo non seppe più riconoscerne i veri dai falsi. E parte imperturbabile nella sua fede che tutto il male suo fosse nervoso, si confidava ciecamente di poterlo placare col cibo. Laonde, a malgrado delle caldissime preghiere de' circostanti, tre volte s'era voluto levare dal letto, dove l'avevano adagiato cosi vestito com'era, e tre volte s'era voluto rimettere a mensa per desinare. Ma sempre, ai primi sorsi, era stato sforzato, suo malgrado, di rimanersene e di riappressarsi al letto: dove, quando io sopraggiunsi col Mannella, lo trovammo nè anche a giacere, ma solamente sulla sponda, con alcuni guanciali di traverso che lo sostenevano.

Si rallegrò del nostro arrivo, ci sorrise; e, benchè con voce alquanto più fioca e interrotta dell'usato, disputò dolcemente col Mannella del suo mal di nervi, della certezza di mitigarlo col cibo, della noia del latte d'asina, de' miracoli delle gite e del voler di presente levarsi per andarne in villa. Ma il Mannella, tiratomi destramente da parte, mi ammoni di mandare incontanente per un prete; che di altro non v'era tempo. Ed io incontanente mandai e rimandai e tornai a rimandare al prossimo convento degli agostiniani scalzi.

In questo mezzo, il Leopardi, mentre tutti i miei gli erano in

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