Sayfadaki görseller
PDF
ePub

cesso delle Termopile fu celebrato veramente da quello che in essa Canzone s'introduce a poetare, cioè da Simonide; tenuto dall'antichità fra gli ottimi poeti lirici; vissuto, che più rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e Greco di patria. Questo suo fatto, lasciando l'epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si dimostra da quello che scrive Diodoro nell' undecimo libro; dove recita anche certe parole d'esso poeta in questo proposito; due o tre delle quali sono espresse nel quinto verso dell'ultima strofe. Rispetto dunque alle predette circostanze del tempo e della persona, e d'altra parte riguardando alle qualità della materia per se medesima, io non credo che mai si trovasse argomento più degno di poema lirico e più fortunato di questo, che fu scelto o più veramente sortito da Simonide. Perochè se l'impresa delle Termopile fa tanta forza a noi che siamo stranieri verso quelli che l' operarono; e con tutto questo non possiamo tener le lagrime a leggerla semplicemente come passasse, ventitrè secoli dopo ch'ell'è seguita; abbiamo a far congettura di quello che la sua ricordanza dovesse potere in un Greco, e poeta, e de' principali; avendo veduto il fatto, si può dire, cogli occhi propri, andando per le stesse città vincitrici d'un esercito molto maggiore di quanti altri si ricorda la storia d'Europa; venendo a parte delle feste, delle maraviglie, del fervore di tutta una eccellentissima nazione, fatta anche più magnanima della sua natura dalla coscienza della gloria acquistata, e dall' emulazione di tanta virtù dimostrata pur allora dai suoi. Per queste considerazioni riputando a molta disavventura che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza fossero perdute; non ch'io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni dell'animo del poeta in quel tempo; e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degl'ingegni, tornare a fare la sua canzone: della quale io porto questo parere, che o fosse maravigliosa, o la fama di Simonide

fosse vana e gli scritti perissero con poca ingiuria. Voi, signor cavaliere, sentenzierete se questo mio proponimento abbia avuto più del coraggioso o del temerario: e similmente farete giudizio della seconda Canzone, ch'io v'offro insieme coll' altra candidamente; e come quello che facendo professione d' amare più che si possa la nostra povera patria, mi tengo per obbligato d'affetto e riverenza particolare ai pochissimi Italiani che sopravvivono. E ho tanta confidenza nell'umanità dell'animo vostro, che quantunque siate per conoscere al primo tratto la povertà del donativo, m'assicuro che lo accetterete in buona parte; e forse anche l'avrete caro; per pochissima o niuna stima che ne convenga fare al vostro giudizio.

DEDICATORIA

DELLA PRIMA EDIZIONE DELLA CANZONE

AD ANGELO MAI.

1820.

AL CONTE LEONARDO TRISSINO.

Voi per animarmi a scrivere mi solete ricordare che la storia de' nostri tempi non darà lode agl' Italiani altro che nelle lettere e nelle sculture. Ma eziandio nelle lettere siamo fatti servi e tributari; e io non vedo in che pregio ne dovremo esser tenuti dai posteri: considerando che la facoltà dell'immaginare e del ritrovare è spenta in Italia; ancorchè gli stranieri ce l'attribuiscano tuttavia come nostra speciale e primaria qualità; ed è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza. E contuttociò quello che gli antichi adoperavano in luogo di passatempo, a noi resta in luogo di affare. Sicchè diamoci alle lettere quanto por

tano le nostre forze; e applichiamo l'ingegno a dilettare colle parole, giacchè la fortuna ci toglie il giovare co' fatti; com'era usanza di qualunque de' nostri maggiori volse l'animo alla gloria. E voi non isdegnate questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricordatevi ch' ai disgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri. Diceva il Petrarca, ed io son un di quei che'l pianger giova. Io non posso dir questo, perchè il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de' tempi e volere della fortuna.

(La stessa Dedicatoria rifatta nel 1824.)

Voi per animarmi a scrivere siete solito d' ammonirmi che l'Italia non sarà lodata nè anco forse nominata nelle storie de' tempi nostri, se non per conto delle lettere e delle sculture. Ma da un secolo e più siamo fatti servi e tributari anche nelle lettere: e quanto a loro io non vedo in che pregio o memoria dovremo essere, avendo smarrita la vena d'ogni affetto e d'ogni eloquenza, e lasciataci venir meno la facoltà dell'immaginare e del ritrovare; non ostante che ci fosse propria e speciale, in modo che gli stranieri non dismettono il costume d'attribuircela. Nondimeno restandoci in luogo d'affare quel che i nostri antichi adoperavano in forma di passatempo, non tralasceremo gli studi, quando anche niuna gloria ce ne debba succedere; e non potendo giovare altrui colle azioni, applicheremo l'ingegno a dilettare colle parole. E voi non isdegnerete questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricordatevi che si conviene agli sfortunati di vestire a lutto, e parimente alle nostre canzoni di rassomigliare ai versi funebri. Diceva il Petrarca: ed io son un di quei che 'l pianger giova. Io non dirò che il piangere sia natura mia propria, ma necessità de' tempi e della fortuna.

DEDICATORIA

PREMESSA ALLA PRIMA EDIZIONE DI FIRENZE

AGLI AMICI SUOI DI TOSCANA.

Amici miei cari, sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (nè posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent'anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto: e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potuto leggere, e per emendarle m'è convenuto servirmi degli occhi e della mano d'altri. Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l'uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m'è in luogo degli studi, e in luogo d'ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infer

(*) Canti del conte Giacomo Leopardi. Firenze, per Guglielmo Piatti, 1831.

mità mi fosse lecito di goderla quant' io vorrei, e s'io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a passar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L'amor vostro mi rimarrà tuttavia e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio. Il vostro Leopardi.

Firenze, 15 Dicembre 1830.

« ÖncekiDevam »