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SONETTO XVI.

Quand' io son tutto volto in quella parte Ove 'l bel viso di madonna luce;

E m' è rimasa nel pensiér la luce

Che m' arde e strugge dentro a parte a parte;
I', che temo del cor che mi si parte,
E veggio presso il fin della mia luce;
Vómmene in guisa d' orbo senza luce,
Che non sa ove si vada, e pur si parte.
Così davanti ai colpi della morte
Fuggo; ma non sì ratto, che 'l desío
Meco non venga, come venír sole.

Tácito vo; che le parole morte
Farían piánger la gente ed i' desío
Che le lágrime mie si spárgan sole.

SONETTO XVII.

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3

Son animali al mondo di sì altera Vista, che 'ncontr' al Sol pur si difende : Altri, però che 'l gran lume gli offende, Non éscon fuor se non verso la sera: Ed altri col desío folle, che spera Giöir forse nel foco, perchè splende; Próvan l' altra virtù, quella che 'ncende. Lasso, il mio loco è 'n questa última schiera: Ch'i' non son forte ad aspettár la luce Di questa donna, e non so fare schermi Di luoghi tenebrosi, o d' ore tarde. Però con gli occhi lagrimosi e 'nfermi Mio destino a vederla mi conduce: E so ben ch'i' vo dietro a quel che m'arde.

SONETTO XVIII.

Vergognando talór ch' ancór si taccia,
Donna, per me vostra bellezza in rima,
Ricorro al tempo ch'i' vi vidi prima,
Tal che null' altra fia mai che mi piaccia,
Ma trovo peso non dalle mie braccia,
Nè ovra da polír con la mia lima:
Però lo 'ngegno, che sua forza estima
Nell'operazión tutto s' agghiaccia.

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Più volte già per dir le labbra apersi:
Poi rimase la voce in mezzo 'l petto.
Ma qual suon poría mai salír tant' alto?
Più volte incominciái di scríver versi :
Ma la penna, e la mano, e l'intelletto
Rimáser vinti nel primiér assalto.

SONETTO XIX.

Mille fiate, o dolce mia guerriera, Per avér co' begli occhi vostri pace, V'aggio proferto il cor: ma a voi non piace Mirár sì basso con la mente altera :

E se di lui fors' altra donna spera; Vive in speranza débile e fallace:

Mio, perchè sdegno ciò ch' a voi dispiace, Esser non può giammái così, com' era.

Or s' io lo scaccio, ed e' non trova in voi Nell' esilio infelice alcún soccorso,

Ne sa star sol, nè gire ov' altri 'l chiama :
Poría smarrire il suo naturál corso;
Che grave colpa fia d' ambedúo noi,
E tanto più di voi, quanto più y'ama.

CANZONE III.

A qualunque animale alberga in terra, Se non se alquanti ch' hanno in odio il Sole Tempo da travagliare è quanto è 'l giorno : Ma poi che 'l ciel accende le sue stelle, Qual torna a casa, e qual s' annida in selva', Per avér posa almeno infín all' alba.

Ed io da che comincia la bell' alba A scuoter l'ombra intorno della terra Svegliando gli animali in ogni selva, Non ho mai triegua di sospir col Sole. Poi, quand' io veggio fiammeggiár le stelle Vo lagrimando, e desïando il giorno.

Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
E le ténebre nostre altrúi fann' alba;
Miro pensoso le crudeli stelle

Che m'hanno fatto di sensibil terra,
E maledico il dì ch' i' vidi 'l Sole

Che mi fa in vista un'uom nudrito in selva.
Non credo che pascesse mai per selva
Sì aspra fera, o di notte, o di giorno,
Come costéi, ch' i' piango all' ombra e al Sole:
E non mi stanca primo sonno, od alba;
Che bench'i' sia mortál corpo di terra,
Lo mio fermo desír vien dalle stelle.

Prima ch' i' torni a voi, lucenti stelle,
O torni giù nell' amorosa selva

Lasciando il corpo, che fia trita terra; Vedéss' io in lei pietà : che 'n un sol giorno Può ristorár molt' anni, e 'nnanzi l'alba

2

Puommi arricchír dal tramontár del Sole.
Con lei foss' io da che si parte il Sole,
E non ci vedéss' altri che le stelle,
Sol una notte; e mai non fosse l'alba;
E non si trasformasse in verde selva
Per uscirmi di braccia, come il giorno
Che Apollo la seguía quaggiù per terra.
Mä io sarò sotterra in secca selva,
El giorno andrà pien di minute stelle,
Prima ch' a si dolce alba arrivi il Sole.

CANZONE IV.

Nel dolce tempo della prima etade, Che nascer vide, ed ancór quasi in erba, La fera voglia che per mio mal crebbe ; Perchè cantando il duol si disacerba, Canterò com' io vissi in libertade,

Mentre Amór nel mio albergo a sdegno s'ebbe: Poi seguirò siecome a lui ne 'ncrebbe

Troppo altamente; e che di ciò m'avvenne;
Di ch' io son fatto a molta gente esempio:
Benchè 'l mio duro scempio

Sia scritto altrove si, che mille penne
Ne son già stanche, e quasi in ogni valle
Rimbombi 'l suon de' miei gravi sospiri
Ch' acquistan fede alla penosa vita :
E se qui la memoria non m' äita,
Come suol fare, iscúsinla i martiri,
Ed un pensiér che solo angoscia dálle
Tal, ch' ad ogni altro fa voltár le spalle,
E mi face obbliár me stesso a forza:

PARTE I

2

Che tien di me quel dentro, ed io la scorza
I' dico, che dal dì che 'l primo assalto
Mi diede, Amór, molt' anni éran passati :
Sì ch'io cangiava il giovenile aspetto,
E dintorno al mio cor pensiér gelati
Fatto avéan quasi adamantino smalto,
Ch' allentár non lassava il duro affetto :
Lágrima ancór non mi bagnava il petto,
Nè rompéa il sonno; e quel che 'n me non era
Mi pareva un mirácolo in altrúi.
Lasso, che son? che fui?

La vita il fin, e 'l dì loda la sera.

Che sentendo il crudél di ch' io ragiono,
Infin allór percossa di suo strale
Non éssermi passato oltra la gonna;
Prese in sua scorta una possente donna,
Ver cui poco giammái mi valse, o vale
Ingegno, o forza, o dimandár perdono.
Ei duo mi trasformaro in quel ch' i' sono,
Facéndomi d' uom vivo un lauro verde
Che per fredda stagión foglia non perde.
Qual mi fec' io, quando primiér m'accorsi
Della trasfigurata mia persona;

E i capéi vidi far di quella fronde
Di che sperato avéa già lor corona;

E i piedi, in ch'io mi stetti, e mossi, e corși, (Com' ogni membro all' ánima risponde) Diventár due radici sovra l'onde,

Non di Penéo, ma d'un più altéro fiume;
E 'n duo rami mutarsi ambe le braccia !

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