meno ancór m' agghiaccia
L'ésser coverto poi di bianche piume, Allór che fulminato, e morto giacque Il mio sperár, che troppo alto montava. Che perch' io non sapéa dove, nè quando Mel ritrovassi; solo lagrimando,
La 've tolto mi fu, di e notte andava Ricercando dal lato e dentro all' acque : E giammai poi la mia lingua non tacque, Mentre potéo, del suo cadér maligno : Ond' io presi col suon colór d' un cigno. Così lungo l'amate rive andái; Che volendo parlár cantava sempre Mercè chiamando con estrania voce: Nè mai in sì dolci, o in sì söavi tempre Risonár seppi gli amorosi guai, Che 'l cor s'umilïasse aspro e feroce. Qual fu a sentir; che 'l ricordár mi coce? Ma molto più di quel ch' è per innanzi, Della dolce ed acerba mia nemica
È bisogno ch' io dica;
Benchè sia tal, ch' ogni parlare avanzi. Questa che col mirár gli ánimi fura, M'aperse il petto, e 'l cor prese con mano Dicendo a me: Di ciò non far parola: Poi la rividi in altro ábito sola
Tal, ch' i' non la conobbi, ( o senso umano Anzi le dissi 'l ver pien di päura :
Ed ella nell' usata sua figura
Tosto tornando, fécemi, oimè lasso !
D'un quasi vivo e sbigottito sasso. Ella parlava si turbata in vista, Che tremár mi fea dentro a quella petra Udendo: I' non son forse chi tu credi: E dicéa meco: Se costéi mi spetra, Nulla vita mi fia nojosa o trista : A farmi lagrimár, signór mio, riedi. Come, non so, pur io mossi indi i piedi, Non altrúï incolpando che me stesso, Mezzo tutto quel di tra vivo e morto. Ma perchè 'I tempo è corto,
La penna al buon volér non può gir presso Onde più cose nella mente scritte
Vo trapassando ; e sol d' alcune parlo, Che meraviglia fanno a chi le ascolta. Morte mi s'era intorno al core avvolta, Nè tacendo potéa di sua man trarlo, O dar soccorso alle virtuti afflitte : Le vive voci m'érano interditte : Ond' io gridái con carta e con inchiostro: Non son mio, nò: s'io moro, il danno è vostro. Ben mi credéa dinanzi agli occhi suoi D'indegno far così di mercè degno : E questa speme m'avéa fatto ardito. Ma talór umiltà spegne disdegno Talór lo 'nfiamma: e ciò sepp' io dappói Lunga stagión di ténebre vestito :
Ch'a quei preghi il mio lume era sparito. Ed io non ritrovando intorno intorno Ombra di lei, nè pur de' suoi piedi orma; Com' uom che tra via dorma,
Gittaimi stanco sopra l' erba un giorno. Ivi accusando il fuggitivo raggio Alle lágrime triste allargái 'l freno, E lasciaile cadér come a lor parve : Nè giammái neve sotto al Sol disparve, Com' io sentúi me tutto venír meno, E farmi una fontana appiè d' un faggio. Gran tempo úmido tenni quel viaggio. Chi udi mai d' uom vero náscer fonte ? E parlo cose manifeste e conte.
L'alma, ch'è sol da Dio fatta gentile, (Che già d'altrúi non può venír tal grazia) Símile al suo Fattór stato ritiene: Però di perdonár mai non è sazia A chi col core e col sembiante umile
Dopo quantunque offese a mercè viene : E se contra suo stile ella sostiene
D'ésser molto pregata, in lui si specchia; E fal perchè 'l peccár più si pavente: Che non ben si ripente
Dell' un mal, chi dell' altro s' apparecchia. Poi che madonna da pietà commossa Degnò mirarmi, e riconobbe e vide Gir di pari la pena col peccato; Benigna mi ridusse al primo stato. Ma nulla è al mondo in ch' uom saggio si fide Ch' ancór poi ripregando, i nervi e l'ossa Mi volse in dura selce; e così scossa Voce rimasi dell' antiche some,
Chiamando morte e lei sola per nome.
Spirto doglioso errante, mi rimembra, Per spelunche deserte, e pellegrine, Piansi molt' anni il mio sfrenato ardire: Ed ancór poi trovái di quel mal fine, E ritornái nelle terrene membra, Credo per più dolór ivi sentire. I' seguíi tanto avanti il mio desire, Ch' un di cacciando siccóm' io soléa, Mi mossi; e quella fera bella e cruda In una fonte ignuda
Si stava, quando 'l Sol più forte ardéa. Io, perchè d'altra vista non m' appago, Stetti a mirarla : ond' ella ebbe vergogna, per farne vendetta, o per celarse, L'acqua nel viso con le man mi sparse. Vero dirò forse e' parrà menzogna:
Ch'i' sentíi trarmi della propria imago; Ed in un cervo solitario e vago
Di selva in selva ratto mi trasformo; Ed ancór de' miei can fuggo lo stormo. Canzón, i' non fu' mai quel núvol d' oro Che poi discese in preziosa pioggia, Sì che 'l foco di Giove in parte spense: Ma fui ben fiamma ch' un bel guardo accense; E fui l' uccél che più per l'aere poggia, Alzando lei che ne' miei detti onoro : Nè per nova figura il primo alloro Seppi lasciár: che pur la sua dolce ombra Ogni men bel piacér del cor mi sgombra,
Se l' onorata fronde che prescrive L'ira del ciel, quando 'l gran Giove tona, Non m' avesse disdetto la corona Che suole ornár chi pöetando scrive ; I' era amico a queste vostre Dive, Le qua' vilmente il sécolo abbandona: Ma quella ingiuria già lunge mi sprona Dall' inventrice delle prime olive :
Che non bolle la pólver d'Etïopia Sotto 'l più ardente Sol, com'io sfavillo Perdendo tanto amata cosa propia. Cercate dunque fonte più tranquillo ; Che 'l mio d'ogni licór sostiene inopia, Salvo di quel che lagrimando stillo.
Amór piangeva, ed io con lui tal volta, Dal qual miei passi non fur mai lontani ; Mirando, per gli effetti acerbi e strani, L' ánima vostra de' suoi nodi sciolta.
Or ch' al dritto cammín l'ha Dio rivolta; Col cor levando al cielo ambe le mani, Ringrazio lui ch' i giusti prieghi umani Benignamente, sua mercede, ascolta. E se tornando all' amorosa vita, Per farvi al bel desío vólger le spalle, Trovaste per la via fossati o poggi;
Fu per mostrár quant' è spinoso 'I calle, E quanto alpestra e dura la salita
Onde al vero valór convién ch' uom poggi,
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