SONETTO XXVII. Apollo, s'ancór vive il bel desio Che t'infiammava alle Tessáliche onde; E se non hai l' amate chiome bionde Volgendo gli anni già poste in obblío; Dal pigro gielo e dal tempo aspro e rio, Che dura quanto 'l tuo viso s' asconde Difendi or l' onorata e sacra fronde Ove tu prima, e poi fu' invescáť' io: E per vertù dell' amorosa speme Si vedrém poi per maraviglia insieme SONETTO XXVIII. Solo e pensoso i più deserti campr Vo misurando a passi tardi e lenti; E gli occhi porto per fuggire intenti Dove vestigio umán la rena stampi. Altro schermo non trovo che mi scampi Dal manifesto accórger delle genti; Perchè negli atti d' allegrezza spenti Di fuor si legge com' io dentro avvampi: Si ch'io micredo omái chemonti, epiagge, E fiumi, e selve sáppian di che tempre Sia la mia vita; ch'è celata altrúi. Ma pur sì aspre vie, nè sì selvagge Cercár non so ch' Amór non venga sempre Ragionando con meco, ed io con lui, SONETTO XXIX. S' io credessi per morte éssere scarco Del pensier amoroso che m'atterra ; Con le mie mani avréi già posto in terra Queste membra nojose, e quello incarco: Ma perch' io temo che sarebbe un varco Di pianto in pianto, e d' una in altra guerra; ancór che mi si serra, Di qua dal passo Mezzo rimango lasso, e mezzo il varco. La CANZONE VIII. Si è débile il filo a cui s' attiene Che, s' altri non l' äita, Ella fia tosto di suo corso a riva : Feci, sol una spene È stato infín a qui cagión ch' io viva, Sia dell' amata vista; Mantienti, ánima trista: Che sai, s' a migliór tempo anco ritorni Ed a più lieti giorni ? O se'l perduto ben mai si racquista Questa speranza mi sostenne un tempo: Ch' assái spazio non aggio Pur' a pensár com' io corro alla morte. Dell' avverso orizzonte Giunto 'l vedrai per vie lunghe e distorte. Si gravi i corpi e frali Degli uomini mortali; Che quand' io mi ritrovo dal bel viso Col desío non potendo móver l' ali ; Che portáron le chiavi De' miei dolci pensiér mentr' a Dio piacque Altro giammái non chieggio; E ciò ch' io vidi dopo lor, mi spiacque. Quanto mar, quanti fiumi M' ascóndon que' duo lumi Che quasi un bel sereno a mezzo 'I die Fer le ténebre mie, Acciò che'l rimembrár più mi consumi; Che nacque il giorno ch'io Lasciái di me la miglior parte addietro; Onde 'l mio dolór cresca? E perchè pria tacendo non m'impetro? Non mostrò mai di fore Nascosto altro colore; Che l'alma sconsolata assái non mostri E la fera dolcezza ch' è nel core Per gli occhi, che di sempre piánger vaghi Cércan di e notte pur chi glien' appaghi. Novo piacér; che negli umani ingegni Spesse volte si trova ; D'amár, qual cosa nova Più folta schiera di sospiri accoglia. Che di lágrime pregni Sien gli occhi miei, sì come 'l cor di doglia : Ragionár de' begli occhi; O sentír mi si faccia così addentro) Cola donde più largo il duol trabocchi; Le treccie d'or, che devrien far il Sole D'invidia molta ir pieno; E' bel guardo sereno, Ove i raggi d' Amór si caldi sono, Rade nel mondo, o sole, Che mi fer già di sè cortese dono, Più lieve ogni altra offesa, Che l'éssermi contesa Quella benigna angélica salute Destár soléa con una voglia accesa; E le braccia gentili, E gli atti suoi söavemente alteri, Torre d'alto intelletto, Mi célan questi luoghi alpestri e feri: E non sa s' io mi speri Vederla anzi ch' io mora: |