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281095

7

ΑΓ

GIORNALE DANTESCO

LIBRARY

Jell'articolo: Sul V Canto dell'“In-
ferno,,, inserito nella Nuova
Antologia (fasc. 733, 1° luglio
1902) il prof. F. Torraca, trat-
tando delle tenebre che domi-
nano nel 2° cerchio, cosi esprimesi: Come
accade non si sa; ma sembra, abituatosi a poco
a poco a discernere nel buio, Dante veda gli
spiriti.... (pag. 40).

Ma davvero non si sa come questo fatto
accada? O non si sa piuttosto in che senso
il critico abbia voluto adoperare il suo non
si sa? La questione non pare poi difficilissi-
ma a risolversi per chi voglia attentamente
studiarla; anzi ecco il risultato delle indagini
con un pochino di pazienza e di buona vo-
lontà da me fatte.

Sull'oscurità dei luoghi di colpa e di pena
Dante insiste fin dal secondo verso della
Commedia. Oscura è la selva, per la quale
si trova il Poeta (Inf., I, 2): addirittura là

il sol tace (ibid., I, 60). Piú oscuro ancóra

è l'Inferno, ma sull'entrare primo delle se-

grete cose (III, 21), il luogo è bruno come

aer senza stelle (ibid., 23). Il Poeta distingue

ascoltando solo, e poi intravede qualcosa at-

traverso quell' aria senza tempo tinta (III, 29);

dunque tenebre son già, ma tenebre come

d'un giorno fittamente annuvolato che non

tolgono del tutto la vista. Tanto che Dante

riguarda e vede una insegna (III, 52), e, ri-

conosce qualcuno fra la lunga tratta di gente

e vede e conosce un'ombra (ibid., 59), e vede

pienamente lo stato di pena, fino alle lagri-

me vede, fino ai fastidiosi vermi. E allora
bisognerebbe convenire che il Poeta si fosse
abituato a discernere nel buio in pochi istanti
e non mano mano, poiché dalla narrazione
questo lasso di tempo, opportuno perché si
faccia l'abitudine, non appare. E dire che
convenne altra volta esser tardo lo scendere
di Dante e di Virgilio, sí che s'ausasse pri-
ma un poco il senso all'orribile soperchio
del puzzo, che il profondo abisso gittava!
E Dante istesso questo attardarsi lo mette
in rilievo; perché non l'avrebbe fatto quanto
al senso della vista? Dunque l'abitudine non
pare possa pienamente spiegare il fatto della
visione nelle tenebre.

Gli epiteti del buio che riscontransi qua
e là nella prima Cantica non seguono un
climax diretto. Sono tenebre eterne ora (III,
87), e piú giú poi trovasi la valle d'abisso

Oscura, profonda.... e nebulosa

tanto, che per ficcar lo viso al fondo,

....non vi (si) discernea veruna cosa.

(IV, 10 e segg.).

E Virgilio, tutto smorto, incomincia :

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Eppure egli assiste ai giudizî di Minosse, che, a sua volta, vede il Poeta (V, 17) Tornasi a ribattere sulla assenza della luce:

Io venni in loco d'ogni luce muto

(V, 28),

e Dante nondimeno vede immediatamente la bufera con la sua rapina degli spirti. Vede e domanda,. insistendo sempre sull'assenza della luce:

chi son quelle

genti, che l'aer nero sí castiga?

(V, 50, 51).

Però l'espressione s' attenua súbito dopo: dal nero si passa non dico al maligno, ma al perso. Perché? Anche l'aere rispecchia la morte sanguinosa? Il perso è nero mescolato di purpureo (Convivio, tratt. IV, cap. XX), e alla mente di Dante, che di pittura sapeva abbastanza, questa idea è potuta balenare: l'aere, nero per sé stesso, per l'influsso del sangue versato, ha del perso. Chi lo sa!

Tenebroso, sol tenebroso (VI, 11) è l'aere del terzo cerchio della piova e tetro (VII, 31) quello del quarto degli avari. Anche l'acqua della fonte che fa la palude stigia risente gli effetti della mancanza di luce:

L'acqua era buia molto piú che persa

(VII, 103)

e le piagge intorno son grigie (ibid., 108). Che anzi dell'antitesi si serve il Poeta maravigliosamente:

tristi fummo

nell'aer dolce che dal sol s'allegra

Or ci attristiam nella belletta negra (VII, 121-122, 124). Alle mura di Dite l'aer è nero e la nebbia folta (IX, 6). Nel primo girone del settimo cerchio l'unico accenno alle tenebre trovasi in bocca a Virgilio:

Mostrarli mi convien la valle buia

(XII, 86);

perché qui il Poeta più che a descrivere l'oscurità del luogo, intendeva a far risaltare la curiosità che hanno le anime, vedendo un vivo nel regno loro, la qual cosa c'è dimostrata piú chiaramente, a me pare, dal: Cosi adocchiato che viene in séguito. Vero è che Guido Guerra e il Tegghiaio ed Jacopo Rusticucci accennano ai luoghi bui (XVI, 82), ma qui deve intendersi generalmente di tutto l'Inferno e non del luogo da essi occupato, come vedremo in séguito. Torna però l'oscurità nel pozzo di Gerione dove è l'aer grosso e scuro (XVII, 130) e nella discesa rapida Dante vede

spenta

ogni veduta, fuor che della fiera

(XVII, 113, 114).

E qui m'è d'uopo richiamare l'attenzione e far notare che nel vano non c'era proprio nulla da vedere e la mancanza di ombre di peccatori toglie, e ne vedremo il perché, qualunque lontana idea di luce; il buio quindi doveva esservi pienissimo da principio, ma quanto piú si scende, tanto più chiari vanno distinguendosi alcuni fuochi (XVII, 122) e vedesi, che non si vedea davanti (ibid., 224).

Lo scendere e il girar, per li gran mali
che s'appressavan da diversi canti

(XVII, 125, 126).

Nella prima bolgia niun accenno a tenebre; nella seconda se l'occhio del Poeta non bastava a vedere, era perché il fondo era cupo (XVIII, 109), non per assoluta mancanza di luce.

Nella terza e nella quarta bolgia il Poeta non trova particolarità che riguardino a mancanza di luce; la quinta si che gli appare mirabilmente oscura (XXI, 6), perché vi è pece bollente, ma non per fuoco (ibid., 16); ed era visibile la pegola spessa in sulle prime, ma Dante non vedeva in essa

Ma' che le bolle che il bollor levava

(ibid., 19 e 20).

Però il senso della vista agisce súbito alnel secondo girone non ve n'è affatto, né l'apparir d'un demonio e de' dannati. Tornel terzo, se togliamo quei versi:

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sa Giudecca mancanza assoluta di luce non vi è:

Come quando una grossa nebbia spira

o quando l'emisperio nostro annotta,
par da lungi un mulin....

(XXXIV, 4-6).

È questa, può dirsi, l'ultima descrizione delle tenebre infernali, che procedono, come s'è visto, senza seguire una scala ascendente, quel climax di cui già ho detto, che, del resto, poiché troviamo quel verso:

Quello è il più basso loco e il piú oscuro

(IX, 28),

pare sia stato concepito da Dante nella prima ideazione del Poema e per cause a cui in séguito accenneremo, dovette poscia essere abbandonato. Ma si rifletta con quanta minuziosa cura il Poeta ha plasmato questo suo mondo infernale, come lo ha lumeggiato, come ha cercato di renderlo tremendo con la continua incombente nota dell'assenza della luce. Non domina colà il sole, ma la luna e dalla luna e dalle stelle si regola Virgilio, e coi mesi lunari si aiutano a indicare il tempo nei suoi lassi Farinata (X, 79-80), Ulisse (XXVI, 130), il Conte Ugolino (XXXIII, 24), sebbene non sia questa una regola costante. L'ultima parte poi, che è la più bella, può rilevarsi dalla bocca del Savio gentile. Ha già mostrato a Dante Bruto e Cassio; ma la fretta lo sospinge ed egli dice:

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