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In questo componimento sembra che il Cavalcanti volesse riunire tutto ciò che la dottrina d'Amore ha di più astratto; ma egli il fece con definizioni e divisioni cotanto sottili, e con linguaggio per tal modo scolastico, che piuttostochè una Canzone gli venne fatto un trattato metafisico. È pertanto agevol cosa il conoscere quanto una tal poesia, sebbene racchiuda di belle sentenze, e sia piena di molta dottrina, per voler troppo parlare all' intelletto, lasci freddo del tutto il core. Anche Dante fu pregato da amica persona a dire per rima che cosa fossesi Amore: ma con quanto maggior grazia egli nol fece? Ascoltiamolo:

« Amore e cor gentil sono una cosa

Siccome il Saggio in suo dittato pone:

E così senza l'un l'altro esser osa,
Com' alma razional senza ragione:

Fagli natura, quando è amorosa,

Amor per sire, e 'l cor per sua magione;
Dentro allo qual dormendo si riposa
Talvolta brieve e tal lunga stagione.

Beltate appare in saggia donna pui 2

Che piace agli occhi, sì che dentro al core
Nasce un desio della cosa piacente:

E tanto dura talora in costui

Che fa svegliar lo spirito d'amore;

E simil face in donna uomo valente. >>

1 Intende Guido Guinicelli.

2 Pui per poi.

Il Landino a quel luogo del Canto X, dell' Inferno, ov'è fatta parola di Cavalcante, dice molto giudiziosamente, che il di lui figlio Guido, dialettico acutissimo e filosofo egregio, dettò versi volgari pieni di gravità e di dottrina. Ma perchè datosi tutto alla Filosofia non curò molto di studiare ne' poeti latini e d'investigare loro arte e ornamenti, mancò di quello stile animato e leggiadro che dee esser proprio del poeta. Guido, non v' ha dubbio, era assai dotto: pur nonostante nel poeta non vuolsi solo dottrina, ma grand' anima altresì, e grand' arte; ed in questo appunto si è che Guido rimase d'assai inferiore al suo amico Alighieri. Fra i suoi migliori Sonetti notasi il seguente, nel quale va deserivendo le pene e le angoscie cagionategli dal disdegno e dalla durezza della sua Donna:

<< A me stesso di me gran pietà viene

Per la dolente angoscia, ch' io mi veggio;
Per molta debolezza quand' io seggio,
L'anima sento ricoprir di pene.

Tanto mi struggo, perch' io sento bene,

Che la mia vita d'ogni angoscia ha'l peggio:
La nuova Donna, a cui mercede io chieggio,
Questa battaglia di dolor mantiene:

Perocchè quand' io guardo verso lei,

Drizzami gli occhi dello suo disdegno
Si fieramente, che distrugge il core:
Allor si parte ogni virtù da' miei ;

Il cor si ferma per veduto segno

Dove si lancia crudeltà d'Amore. »

Un Sonetto sopra un eguale argomento ha pure l' Alighieri, nè fia discaro al lettore il vederlo riportato qui appresso, sì per farne un confronto coll' altro di Guido, sì per ammirare le molte bellezze, che in esso risplendono, tanto che ad essere raffigurate non fa d'uopo di analisi.

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<< Vogliono i periti dell'arte poetica, che Guido tenesse delle Odi » volgari il secondo luogo dopo Dante. » — FILIPPO VILLANI, Vita del Cavalcanti.

១ Cioè, consumo.

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Nel notare la differenza che passa dall' uno all' altro di questi Sonetti, il critico lettore avrà veduto, che sebbene bello e dignitoso sia pur quello del Cavalcanti, il primo quartetto di esso è alquanto debole nè corrisponde nell' artifizio alle altre parti del componimento. Il terzo verso in ispecie pare non essere stato lì posto che pel comodo della rima. Ma il Sonetto di Dante va dal principio al fine dignitosamente e senz' intoppo veruno; ed il metro e la rima anzichè tiranneggiare il poeta, sembrano essergli obbedienti cotanto da divenire nelle sue mani istromenti di nuova e sublime bellezza. Per testimonianza infatti del suo figlio Piero, sappiamo ch'ei solea darsi vanto di non esser giammai stato costretto dalla tirannia della rima a dir cose ch'egli non avesse in prima pensate, ma di averla anzi saputa piegare a' suoi voleri e a' suoi concetti, senza alterarne punto le leggi. A riuscire in ciò, volevasi, non ha dubbio, artifizio grandissimo, specialmente quando il metro portava seco molte difficoltà. Laonde quei poetici componimenti, che hanno rime intermedie, essendo i più scabri e i più difficili, ne porrò sott' occhio del lettore alcun tratto, affinchè possa vedere come Dante in quelli riuscisse, e quanto a giusto titolo si desse egli il vanto ora accennato. La Canzone alla Morte ne offre un esempio:

<< Morte, poich' io non trovo a cui mi doglia,

Nè cui pietà per me muova sospiri

Ove ch' io miri,

1 Cioè, non s' addice, non s' affà.

o'n qual parte ch'io sia;

2 Cioè, Clizia.

E poichè tu se' quella che mi spoglia
D'ogni baldanza, e vesti di martiri,
E per me giri ogni fortuna ria;
Perchè tu, Morte, puoi la vita mia
Povera e ricca far, ec. >>

Un altro esempio può aversi nella Canzone XVII.

« Poscia ch' Amor del tutto m'ha lasciato

Non per mio grato, 1

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Chi è pertanto, il quale in questi versi non scorga, unitamente all'aggiustatezza de' concetti, la proprietà della locuzione e la spontaneità delle rime? Nulla può riscontrarvisi di forzato e contorto, nè una frase o una parola pure d'ozioso e di superfluo. La poesia sotto la penna d' un rimatore sì valoroso e sì destro, prende un andamento cotanto elegante, una venustà così naturale, che a prima vista non potrebbe ravvisarvisi l'artifizio poetico, se non si sapesse esser arte grandissima il nasconder l'arte.

Anche il Petrarca volle dar prova dell'ingegno suo in tal maniera di poetici componimenti:

<< Mai non vo' più cantar com' io soleva:

Ch'altri non m'intendeva; ond'ebbi scorno;

E puossi in bel soggiorno esser molesto:

Il sempre sospirar nulla rileva.

Già su per l'Alpi neva —

Ed è già presso al giorno;

Un atto dolce onesto
Ed in donna amorosa
Che in vista vada

Non per mia volontà.

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d'ogni intorno;

ond'io son desto.

è gentil cosa,

ancor m' aggrada,

altera e disdegnosa.»

E prima del Petrarca, Cino da Pistoia:

« Cosi fu'io ferito risguardando:

Poi mi volsi tremando

Nè fia più ch'io rimiri

Ancor ch'omai

--

ne' sospiri,

a lui giammai,

io non possa campare:

Che se il vo' pur pensare, io tremo tutto;

E'n tal guisa conosco il cor distrutto. >>

Ma quivi questi due Poeti troppo, dobbiamo dirlo, fecero sfoggio di rime, cosicchè una tal poesia invece di procedere col sostenuto andamento della Canzone, sembra piuttosto tenere la maniera capricciosa e saltettante della Frottola, o del Ditírambo. In questo, che non so se debba dirmi difetto, caddero pure Guido Cavalcanti e Guido dalle Colonne, cui que' rimatori susseguenti tolsero ad imitare. Meglio però al Petrarca riuscì una tal prova nella Canzone Vergine bella, ov' ei s'avvisò d'essere assai più parco di rime intermedie, una sola in ciascheduna stanza ponendone, e questa nel fine, nella guisa seguente:

« Soccorri alla mia guerra

Bench' io sia terra, e tu del ciel regina. »

Quella Canzone, che dalla forma e dalla tessitura delle sue stanze, vien chiamata antica Sestina, è pur essa un componimento assai malagevole; perciocchè la troppa distanza delle consonanze le dà l'aspetto d'un componimento languido, e privo di grazia e d'armonia, e la ripetizione continua delle stesse voci finali porta seco agevolmente il rischio di risvegliare press' a poco le stesse idee. Vuolsi adunque nel poeta molt'arte e molta copia di concetti a far sì che un tale componimento, scabro e disarmonico di sua natura, riesca leggiadro, pieno, e maestoso. Bella nulladimeno, ed assai ben condotta, dee dirsi la Sestina di Dante, la quale incomincia:

« Al poco giorno, ed al gran cerchio d'ombra. >>

Ancor più difficile si è l'altro genere di Canzone, chiamata Sestina doppia dalla seguente peraltro, di cui riporto solo una stanza, potrà conoscersi quanto il nostro Poeta fosse maestro in tuttociò, che all'arte spetta del verseggiare. Con sole cinque voci finali, cioè donna,

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