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tiquattro anni egli fu prete, e in questo stesso anno gli veniva istruito un processo come ariano per aver mitigate le crudeli parole di un frate bestia a verso gli Ariani e perchè si sapeva dubitasse del mistero della Trinità. Egli allora scappò da Napoli e sen venne a Roma e fu ricevuto al convento della Minerva regnante a Roma Gregorio XIII. Ma Roma era un asilo poco sicuro per lui ed egli, deposto l'abito, ne fugge non senza aver prima assistito al doloroso spettacolo che papa Pio V offri a Roma condannando all'abiura lo sventurato arcivescovo di Toledo, Bartolomeo Carranza che aveva già languito sei anni nelle prigioni di Valladolid, benchè uomo di costumi purissimi. Bruno, fuggendo, lo lasciava morente alla Minerva (1576). Allora sen viene a Genova e, smesso l'abito, riprende il suo nome natale di Filippo e dopo tre giorni è a Noli ove l'Alighieri discese e comincia ad insegnare grammatica a' putti confortandosi dal pasante incarico collo spiegare la Sfera ad alcuni gentiluomini di quella repubblica. E sullo stesso argomento, sappiamo, scrisse un libro smarrito o perduto. Perdita che è tanto più dolorosa in quanto che sappiamo che il Bruno accogliendo con fervido entusiasmo le idee Copernicane trattò in quest'opera del moto degli astri e della terra, della loro grandezza e distanza della loro abitabilità, della loro pluralità ecc., ecc. Indi venne a Savona, poi visitò Torino, e ivi non avendo trovato trattamento a sua soddisfazione ne va a Venezia deserta e squallida per peste fierissima e qui, per procurarsi un po' di danaro scrive un libro: De' segni dei tempi; libro che, se non è quello che ha indicato nel suo scritto più volte citato l'Imbriani, è andato perduto. Dimoratovi due mesi, da Venezia passa a Padova, trova deserto lo Studio e si parte dalla città anch'essa travagliata crudamente dalla peste. Tocca Bergamo, Brescia, viene a Milano e forse ivi conosce Filippo di Sidney che fu

poscia a Londra insieme a Michele di Castelnau il suo buon angelo protettore. Ma poco dopo eccolo di nuovo a Torino e, superato il Moncenisio, nel convento di Chambéry in viaggio verso Ginevra (novembre 1576?) ove egli, l'autore dello Spaccio della bestia trionfante non prese parte alcuna alle dispute teologiche e filosofiche nè fu ammiratore o seguace delle idee di Calvino e degli altri riformatori, ma attese a correggere stampe agli stipendii de' librai della città. Ma egli non ha mai requie. Tormentato da una smania indicibile di veder nuovi paesi, uomini e cose nuove, invasato dal magnanimo entusiasmo di bandire le nuove grandi idee che allora s'affacciavano alla sua mente di filosofo e pensatore, che accendevano nelle dispnte il suo sguardo, rendevano calda ed eloquente la sua grande e dotta parola, egli, come tutte le anime scisse non può mai far duraturo soggiorno in luogo alcuno e passa, va ramengo, privo di ogni cosa, di loco in loco, di paese in paese. E da Ginevra va a Lione; dopo dieci o dodici giorni riparte per Tolosa. (gennaio? febbraio 1577).

Lo Studio di Tolosa fioriva in quel tempo per ogni maniera di discipline. Esso, si dice, contasse più di diecimila studenti e vi professavano uomini di grande dottrina. Secondo l'Imbriani questo soggiorno del Bruno in Tolosa è per la storia della nostra commedia di somma importanza. Giordano stesso ci dice che quivi egli fece « pratica di persone intelligenti, » fra queste la signora Morgana, cui è dedicata la commedia, e il di lei marito che secondo l'Imbriani è adombrato in Bonifacio il candelaio. Ma di ciò oltre.

Ascritto Giordano fra i lettori del famoso Studio Tolosano egli prese per testo di sue lezioni il De anima di Aristotele e gl' insegnamenti dati dalla cattedra raccoglieva poi in un libro intorno all'anima

che è andato, come tante altre opere sue, perduto. Ma anche da Tolosa egli partiva muovendo alla volta di Parigi e vi giungeva nei primi del 1579. Le guerre intestine fra Enrico, i Navarresi ed i Guisa, la peste, forse altre cagioni che noi ignoriamo, gl'impediscono di far udire nel primo anno del suo soggiorno la sua parola dalla cattedra nello Studio Parigino. Ma cessata la peste egli conferì con grande plauso sui trenta attributi divini facendo conoscere quanto alto fosse il suo ingegno, quanto nuova e profonda la sua dottrina. Indi raccoglieva al solito le sue lezioni in un libro. Poi provvisionato dal re come professore libero parla dell'arte della memoria Lulliana e delle dottrine di Raimondo Lullo. « A queste nuove lezioni, dice il Berti, che levarono grandissimo rumore, convenivano ad ascoltarlo numerosi scolari tratti dalla facilità e dall'impeto del dire e dalla peregrinità delle sue idee. Con molto accorgimento intercalava alle opinioni Lulliane le sue, faceva applicazioni ingegnose e nuove, procedeva con rapidità dai particolari ai generali; e spesso dagl' intricati labirinti dell'arte mnemonica, levavasi nei luminosi campi della metafisica, della fisica e dell'astronomia. La sua parola ora correva chiara ed elegante, ora incolta ed irta di vocaboli astratti, ma si maravigliosamente pronta in qualsiasi subbietto che gli animi degli ascoltanti n'erano rapiti. Usava a quando a quando motti arguti e vivaci; abbondava in comparazioni, in metafore, in citazioni curiose. Prometteva grandi cose e le promesse accompagnava con parole vaghe e misteriose che eccitavano vivamente la curiosità e l'attenzione degli uditorii. Insegnava con passione ed amava dissertare all'improvviso sopra qualsiasi problema o questione. » É qui alto poggiò la fama del filosofo; il re vuol conoscere quest'uomo singolare, lo vuole suo professore, lo regala largamente, e a lui il filosofo riconoscente dedica il De umbris

idearum; e assecondando il desiderio del re che tanto gusto prendeva alle rappresentazioni teatrali massime italiane, egli scrive, crediamo a sua istigazione, questa mirabile sua commedia: ed a Enrico d'Angoulême dedicò il Canto Circeo prima, poi il De compendiosa architectura et complementu artis Lulli scritti tutti nell'anno della sua grande attività letteraria il glorioso anno 1582.

Ma anche da Parigi egli si parte quando i dotti lo riverivano, gli studenti dell'Università l'amavano, il re avea preso a proteggerlo, la Corte ad accoglierlo. E verso gli ultimi mesi del 1583, con lettere di raccomandamento di Enrico III per il suo ambasciatore a Londra il nobile Michele di Castelnau, volge i suoi passi verso quella città. È ricevuto con ogni più lieta accoglienza, con ogni cortesia. Il generoso signore di Castelnau lo vuole suo gentiluomo nelle sue case. E Giordano trova finalmente una dolce consolazione ai suoi dolori, un sollievo alla sua povertà nelle premure affettuose della nobile famiglia e si lega di affetto che fu quasi di padre amoroso ad amorosa figlia alla piccola Maria, l'angioletto di casa Castelnau. E tanto è il rispetto che si ha per lui che non gli si muove alcun rimprovero se egli non frequenta a messa, non assiste alle altre pratiche religiose dell'ospitale famiglia. Qui egli scrisse e dedicò al Castelnau la Spiegazione de' trenta sigilli premettendovi una singolare lettera ai dottori di Oxford che è di gran valore per la sua biografia chiamandovi sè stesso dormitantium animorum excubitor. E ad Oxford egli va poco dopo e quivi dalla cattedra parla dell'immortalità dell'anima e sulla quintuplíce sfera, ma dovette smettere per opposizione fattagli dagli effeminati dottori di quella Università. Il Berti asserisce, e qui egli è buon giudice, che « tutte le opinioni dei moderni sulla tramutazione della specie, sullo

spirito universale, già si trovano nei libri pubblicati in Londra dal Bruno. » A questo tempo si devono riportare i dialoghi della Cena delle Ceneri ove egli con singolare efficacia e con aspro e pungente linguaggio parla specialmente della pluralità e del moto degli astri e vi prevede che « se gli avverrà di morire in terra cattolica non gli mancheranno torchi accesi per dar fuoco al suo rogo. » Alla Bestia trionfante seguivano il libro Della causa, principio et uno quello Dell'infinito universo e mondi, la Cabala del cavallo Pegaseo, l'Asino cillenico e gli Eroici furori, e in essi sfolgora e giganteggia fra tutti i contemporanei per singolarità d'idee il genio di Giordano.

Colta l'occasione del ritorno a Parigi della famiglia dei Castelnau sulla fine del 1585 anch'esso vi ritorna e alla Sorbona muove guerra ad Aristotele. < Egli, scrive benissimo il Berti, è pieno di fede nel trionfo della verità, non ostante ch'egli sia lasciato solo sulla breccia a pugnare. Vi sono alcune pagine nell'orazione dell' Hennequin (uno de' suoi discepoli cui il Bruno secondo il costume universitario poneva in bocca le sue idee) le quali eguagliano se non vincono, per l'altezza dei pensamenti quanto abbiamo di meglio negli scritti filosofici del secolo decimosesto. Intravedesi in queste pagine un nuovo indirizzo filosofico ed una maniera nuova di porre e trattare le questioni. Le censure contro Aristotele espresse con formole e concetti generali si distaccano assai dal modo di formolare e concepire del suo tempo. Il Bruno è fra tutti gli scrit tori del secolo decimosesto quello che esprime più modernamente i suoi pensieri. Onde nei suoi libri si trovano in copia le massime e sentenze che da Cartesio in poi hanno acquistata evidenza ed efficacia di assiomi. Crede temerariamente, dice il Nolano per bocca dello Hennequin, chi stima di poter credere senza ragione. Il non far uso della ragione

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