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nella ricerca del vero è un dar prova d'ingratitudine a Dio che ce la donò perchè l'adoperassimo nel rintracciarlo. Chi si sofferma alla ricerca del vero mostra di temere che la verità e la luce possano opporsi alla vera verità ed alla vera luce. » (1)

Ma da Parigi, al solito senza che se ne sappia il perchè, egli parte e nel luglio del 1586 giunge in Marburgo, ma sdegnato per le cattive accoglienze ricevute ne parte e va a Magonza, dopo dieci giorni a Wittemberga ove è bene accolto e ascritto fra i professori dell'Università. E questa città che egli chiama l'Atene della Germania fu anch'essa dolce conforto alla vita randagia del nostro Giordano. Qui egli legge su varie materie e specialmente sull'Organon di Aristotele e vi bandísce le grandi idee di Copernico gettando le basi di una fisica nova ed astronomia nova come egli ripeteva chiedendo per sè e per tutti i filosofi la libertà filosofica, la libertà della coscienza della quale egli fu il più grande martire, chè per questa nuova e grande fede, nuovo Cristo, egli moriva. Egli, scrive il Berti, invoca la libertà filosofica come un dritto, mentre, così nelle università protestanti come nelle cattoliche le opinioni erano materia del dritto penale ed andavano tutte più o meno soggette al supremo giure della teologia. (2)

La sua attività è prodigiosa, e mentre scrive la Lampada combinatoria Lulliana per suggerimento di Alberigo Gentili legge più particolarmente su l'Organon di Aristotele; indi in questo stesso anno 1588 abbandona questa città che doveva poi essergli di così grata ricordanza e va a Praga e nell'aprile dello stesso anno vi giunge e giuntovi pubblica ancora nuovi libri: il De specierum scrutinio

(1) D. BERTI: Vita di Giordano Bruno da Nola, Torino, 1868, pag. 200.

(2) Id. ibid., pag. 211.

et lampade combinatoria Raim. Lullii e i Centum et sexaginta articuli adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, dedicando quest'ultimo all'imperatore Rodolfo II. Il quale lo donava e certo si adoperò perchè il Bruno potesse leggere pubblica mente. Ma dopo sei o sette mesi di soggiorno egli abbandonava lo studio e gli scolari e partiva per Helmsteedt dove, vogliono alcuni biografi, e pare a torto, sia stato maestro del duca Enrico Giulio, certo vi lesse un discorso funebre per il duca Giulio, il padre, già morto. Ma dopo diciotto mesi di lotta gli hoffmanniani per la loro intolleranza lo costringevano a partirsi dalla città. Ad Enrico Giulio quasi congedo dedicava con belle ed affettuose parole il De monade numero et figura stampato nelle officine dei Wechel i quali pubblicavano poco di poi un altro libro dell' instancabile filosofo il De triplici et mensura.

Nel 1590 è a Francoforte sul Meno in occasione delle famose fiere librarie che due volte l'anno si facevano in quella fiorente città. E quivi conobbe G. B. Ciotto libraio veneziano. Costui riportava a Venezia un libro del Bruno forse il De monade numero et figura che capitava nelle mani di Giovanni Mocenico gentiluomo veneziano, anima sciocca ed intelletto eunuco. Il quale lettolo desiderò ardentissimamente di conoscere il Bruno per avere da lui arcani ammaestramenti, e gli scrisse due lettere, l'una consegnata a Giordano dal Ciotto, l'altra da chi, non si sa. Per esse l'invitava a venire nelle sue case a Venezia. E il Bruno colla consueta sua foga interrompeva la correzione degli ultimi fogli di stampa del suo De triplici minimo et mensura, lasciava la sua quieta dimora di Francoforte, salutava per l'ultima volta i buoni Wechel che erano a lui larghi di cortesie, smetteva gli studii durati nella pace laboriosa del convento ove era a pigione e veníva a Venezia che doveva consegnarlo al carnefice e condurlo sul rogo.

Giovanni Mocenico alla debolezza senile dell' intelletto accoppiava malignità d'animo non poca, e curiosità di scienze occulte delle quali credeva il Bruno fosse gran maestro. Ben presto quindi dovettero guastarsi. Lamentossi ben presto Mocenico che il Bruno non gl' insegnasse quanto pur avea promesso. Poi per ordine del confessore quando il Bruno si disponeva a lasciarlo il 22 maggio del 1592 lo faceva prendere nel letto dormiente e buttare e rinchiudere in un solaro e la notte del sabato del 23 tradurre nelle carceri del Santo Uffizio in Venezia, nel gennaio del seguente anno, in quelle di Roma.

Dopo sette anni di torture, di processi, di dolorose ansietà e cupe aspettazioni l'animo di Giordano si stancò e volle farla finita colla vita e coi suoi carnefici. Alle dilazioni che gli si concedevano per ritrattarsi, egli, compreso della verità e della grandezza delle dottrine professate, obbedendo ad un retto sentimento di coscienza quale in tutta la storia dell'umanità pochi hanno avuto in faccia al rogo, oppose sempre più recisi rifiuti. Sicchè papa Clemente VIII l'anno di grazia 1600 al 17 di febbraio, colta l'occasione del giubileo, offriva a' cristiani del mondo cattolico accorsi in gran numero nella cristianissima Roma l'attraente spettacolo dell'arrostimento, senza spargimento di sangue, cioè a fuoco lentissimo, dell'infelice Giordano, colpevole di pensare colla propria testa, di avere svelato al mondo sublimi verità e di obbedire anche dinanzi al rogo alla voce della sua coscienza cui egli non volle mentire.

E anche in questi ultimi momenti Giordano non venne meno a sè stesso un istante solo. « Collocato sopra il rogo già ardente gli fu porta la crocifissa imagine dell'eroe della fede che egli eroe della ragione respinse con occhio torvo e pieno di disprezzo, dice un fervente convertito, lo Schioppio. Più forte

del Cristo che avea respinto egli arse senza un lamento e le sue ceneri furono disperse. » (1)

La sua morte, dice il Berti, e dice egregiamente, come quella del Paleario del Carnesecchi e di altri moltissimi, del pari che i diversi esigli per cagioni religiose, sono prova che in Italia si cominciava ad iscriversi a debito una fede, l'obbedire ad un pensiero. Immenso progresso non apprezzato neanco dagli storici moderni. (2)

Della Commedia « Candelaio. »

III.

De' pregi singolarissimi di questa commedia ci hanno lasciato e ci danno singolari testimonianze scrittori di cose letterarie intendentissimi antichi e recenti. E queste testimonianze ci piace qui riportare perchè si persuadano una buona volta a smetterla quei critici i quali ci vanno ricantando in tutti i toni che nulla d'originale ebbe nel secolo XVI il teatro italiano, nulla da mettere a canto a' celebrati autos spagnuoli, a' drammi dello Shakespeare, alle reputate commedie del teatro francese.

Noi invece crediamo fermamente che basterebbe il solo Candelaio così mal noto anche a' molti di coloro che fanno professione di lettere, pur così male apprezzato pur da chi si lascia andare all'ammirazione di cose ben mediocri e di odierne meschinità pur ben misere a far ricredere questi critici che ripetono, belando in coro il giudizio di un, ahimè! troppo dotto alemanno che si diè ad affermare in

(1) U. A. CANELLO Stor. della Lett. It. nel secolo XVI, pag. 104. (2) D. BERTI, Op. cit., pag. 299.

un suo libro famoso che gl' Italiani « manchino di vero talento drammatico.» (1)

Del resto lo Schlegel la commedia del Bruno non conobbe.

L'Imbriani delle cose della nostra letteratura così intendente rimproverando al Camerini di annoverare fra i precursori del Goldoni il Bruno (2) afferma, forse esagerando nel giudizio intorno all'autore delle Baruffe chiozzotte e dei Rusteghi, senza che però sia men vero il suo apprezzamento sulla commedia del Bruno che « c'è più forza comica e potenza di ingegno nel solo Candelaio che in tutte le slombate commedie anze evirate dell'avvocato veneziano. (3) Aggiunge che lo Schiller che non ebbe a disdegno imitare in un suo epigramma (4) il sonetto che Bruno premette alla sua commedia e il Poquelin che ne traduce in certi luoghi delle sue commedie qualche scena, rimangono molto al di sotto del Bruno » (5) o « l'imitano debolmente » (6) <<< rimanendo nella profondità dello scherzo molto inferiori al modello.» (7) Afferma ancora che in essa « non è una parola che non sia da ponderare, »(8) e sempre a proposito della nostra commedia dice « che la fantasia di Bruno non era inferiore per vigore alla Dantesca. (9)

Arturo Graf nel suo bello e pregevolissimo studio sul Candelaio la giudica « dopo la Mandra

(1) A. W. SCHLEGEL. Corso di lett. dram. Lez. VIII trad. Gherardini, Napoli 1840.

(2) E. CAMERINI. Precursori del Goldoni.

(3) Propugn. vol. VIII, par. I, pag. 76.

(4) SCHILLER. Sämmtliche Werke, Leipzig, vol. I, pag. 253. Wissenschaft.

(5) Propugn. vol. VIII, par. II, pag. 77. 6) Idem vol. IX, par. I, pag. 339.

(7) Idem D VIII, par. I, pag. 195.

(8) Idem

D

IX, par. I, pag. 330.

(9) Idem

D

IX, par. II, pag. 85.

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