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» tuttavia mi parrebbe che non si potesse » uscire o da monsignore Stefano Vai, o da » Piero Salvetti, chi ben consideri lo sti» le ». Ma io non oso rimetterlo al mondo col nome di Stefano Vai.

Sotto l'ombra d'un pino

Alto cinque o sei canne e forse più,
Al suon di un chitarrino

Cantava Cecco la cuccurucu;
Quando venirne a sè

Con frettoloso piè mirò Mengaccio,

Che, fattosegli appresso

Quanto sarebbe a dir da qui a li,
Con un brutto mostaccio

La bocca aperse, e favellò cosi.

Oh Cecco poveraccio!

Oh misero infelice! oh te sgraziato!

Qual domin di peccato

T'ha mai condotto a cosi strano passo?

Qual furia o satanasso

Godė di tormentarti in questa guisa?

1

Lisa tua, la tua Lisa,

Che nell' esser galante

Non cede a Bradamante,

E brava è poco men d'una Marfisa;
Lisa tua, la tua Lisa,

Candida e fresca più della ricotta,
E da mangiar col pane assai megliore
D'una pera bugiarda o bergamotta ;
Non ostante la fede

A te più volte in mia presenza data,
(Scoppiami il core a dirlo) è maritata
Sin a due volte o tre,

Ciò detto, il buon Mengaccio sbadiglio:
Ma, dopoi ch' io non ho, soggiunse al fine,
Negli alberelli miei pillola alcuna

Al tuo male opportuna,

Rimanti col buon di, che Dio ti dia.

E, senz'altro aspettar, sgambettò via.
Al repentino avviso

Di si strana novella e traditora,
Cascorno a Cecco e core e coratella;

E per un quarto d'ora

Perse affatto la vista e la favella.
Indi ripreso fiato,

Fe' mille pezzi e più della chitarra,
E con cera bizzarra

Scaraventò per terra e giubba e saio;

E dopo aver col pugno

A se medem di volte almeno un paio
Scalfitto il petto et ammaccato il grugno,
Tenendo al ciel le luci intente e fisse,
In un languido ohimè proruppe, e disse.
E come può mai stare,

O Lisa mia (chè mia ti vo' pur dire,
Ancorchè fatta d'altri oggi ti sia)
E come può mai star ch'abbi pensiero
Di volere il tuo Cecco abbandonare?
Ohimè ch' io muoio, e muoio da dovero!
O Nencio, o Beco, o Togno,

E voi Sandrino e Nanni, soccorrete,
Soccorrete, vi prego, al mio bisogno;
E se per avventura

Non avete fra mano

Lo Scotto o l' Orvietano,

O altro salutifero segreto,

Datemi, per pietade, un po' d'aceto.

Empio e crudo destino,

So dir che questa volta

M' hai dato il mio dover sin a un quattrino.

Oh! quanto era men male

Ch' un aspro temporale

Mandato avesse al diavol la ricolta;

O che dal vento scossa

Giacesse a terra quella vigna, ond' io

Rendo di fichi il corpo mio satollo;

Ovver per qualche fossa

Rotta si fosse ogni mia vacca il collo;
Che metter me, che t'amo, o Lisa, tanto,
In questo laberinto e ginepreto.
Datemi, per pietade, un po' d'aceto.
Oh che nuova da calze

Mi recasti, Mengaccio! era pur meglio
Gettarmi a capo chino in queste balze:
Almeno avrei finita

E la doglia e la vita;

Almen non t'avrei vista, o Lisa ingrata,
Fatta d'ogn' altro che di Cecco sposa.
Cosa tremenda! cosa

Inaspettata tanto e tanto strana,

Ch'a pensarci ben bene,

Non sol m'aggiaccia il sangue entro le vene,

Ma fa venirmi insino la quartana.

O fiumi, o boschi, o monti,

O parenti, o vicini,

O popoli, o brigate,

Che fate, ohimè! che fate,

Che non porgete aiuto a quest'afflitto,

Che per essere stracco

Omai vacilla, e non può star più dritto?

Che fate, ohimè! che fate?

Almeno, o genti, almeno

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