SONETTO CLXXXIII.
Il pianger ch'ei fa per Laura malata, non ammorza, ma cresce il suo incendio.
L'alto signor, dinanzi a cui non vale Nasconder, nè fuggir, nè far difesa, Di bel piacer m'avea la mente accesa Con un ardente ed amoroso strale: E benchè 'l primo colpo aspro e mortale Fosse da sè; per avanzar sua impresa, Una säetta di pietate ha presa;
E quinci e quindi 'l cor punge ed assale. L'una piaga arde, e versa foco e fiamma; Lagrime l'altra, che 'l dolor distilla Per gli occhi miei del vostro stato rio. per duo fonti sol una favilla
Rallenta dell'incendio che m'infiamma; Anzi per la pietà cresce 'l desío.
SONETTO CLXXXIV.
Dice al suo cuore di ritornarsene a Laura, e non pensa ch'è già seco lei.
Mira quel colle, o stanco mio cor vago: Ivi lasciammo jer lei, ch'alcun tempo ebbe Qualche cura di noi, e le ne 'ncrebbe; Or vorría trar degli occhi nostri un lago. Torna tu in là, ch'io d'esser sol m'appago: Tenta se forse ancor tempo sarebbe Da scemar nostro duol, che 'nfin qui crebbe, O del mio mal partecipe e presago. Or tu, c'hai posto te stesso in obblío, E parli al cor pur com'e' fosse or teco, Misero, e pien di pensier vani e sciocchi! Ch'al dipartir del tuo sommo desío Tu te n'andasti; e' si rimase seco, E si nascose, dentro a' suoi begli occhi.
SONETTO CLXXXV.
Misero! ch'essendo per lei senza cuore, ella si ride se questo parli in suo pro.
Fresco, ombroso, fiorito e verde colle, Ov❜or pensando ed or cantando siede, E fa qui de' celesti spirti fede
Quella ch'a tutto 'l mondo fama tolle; Il mio cor, che per lei lasciar mi volle, E fe gran senno, e più se mai non riede, Va or contando ove da quel bel piede Segnata è l'erba, e da quest'occhi molle. Seco si stringe, e dice a ciascun passo: Deh fosse or qui quel miser pur un poco, Ch'è già di pianger e di viver lasso! Ella sel ride; e non è pari il gioco: Tu Paradiso, i' senza core un sasso, O sacro, avventuroso e dolce loco.
SONETTO CLXXXVI.
Ad un amico innamorato suo pari non sa dar consiglio, che di alzar l'anima a Dio.
Il mal mi preme, e mi spaventa il peggio, Al qual veggio si larga e piana via, Ch'i' son intrato in simil frenesía, E con duro pensier teco vaneggio. Ne so se guerra o pace a Dio mi cheggio; Chè 'l danno è grave, e la vergogna è ria. Ma perchè più languir? di noi pur fia Quel ch'ordinato è già nel sommo seggio. Bench'i' non sia di quel grande onor degno, Che tu mi fai; chè te ne 'nganna Amore, Che spesso occhio ben san fa veder tôrto; Pur d'alzar l'alma a quel celeste regno
È 'I mio consiglio, e di spronare il core, Perchè 'l cammin è lungo, e 'l tempo è corto.
S'allegra per le lusinghiere parole dettegli da un amico in presenza di Laura. Due rose fresche, e côlte in Paradiso L'altr'jer, nascendo il dì primo di Maggio, Bel dono, e d'un amante antiquo e saggio, Tra duo minori egualmente diviso; Con si dolce parlar, e con un riso Da far innamorar un uom selvaggio, Di sfavillante ed amoroso raggio E l'uno e l'altro fe cangiare il viso. Non vede un simil par d'amanti il Sole, Dicea ridendo e sospirando insieme; E, stringendo ambedue, volgeasi attorno. Così partía le rose e le parole;
Onde 'l cor lasso ancor s'allegra e teme. Oh felice eloquenza! oh lieto giorno!
SONETTO CLXXXVIII.
La morte di Laura sarà un danno pubblico, e brama perciò di morire prima di lei. Laura, che 'l verde lauro e l'aureo crine Söavemente sospirando move,
Fa con sue viste leggiadrette e nove L'anime da' lor corpi pellegrine. Candida rosa nata in dure spine!
Quando fia chi sua pari al mondo trove? Gloria di nostra etate! O vivo Giove, Manda, prego, il mio in prima che 'l suo fine; Si ch'io non veggia il gran pubblico danno, E'l mondo rimaner senza 'l suo Sole;
Nè gli occhi miei, che luce altra non hanno; Nè l'alma, che pensar d'altro non vole; Nè l'orecchie, ch'udir altro non sanno, Senza l'oneste sue dolci parole.
SONETTO CLXXXIX.
Perchè nessun dubiti di un eccesso nelle sue lodi, invita tutti a vederla.
Parra forse ad alcun, che 'n lodar quella Ch'i' adoro in terra, errante sia 'l mio stile, Facendo lei sovr'ogni altra gentile, Santa, saggia, leggiadra, onesta e bella. A me par il contrario; e temo ch'ella Non abbi' a schifo il mio dir troppo umíle, Degna d'assai più alto e più sottile: E chi nol crede, venga egli a vedella. Si dirà ben: Quello, ove questi aspira, È cosa da stancar Atene, Arpino, Mantova e Smirna, e l'una e l'altra lira. Lingua mortale al suo stato divino
Giunger non pote: Amor la spinge e tira, Non per elezion, ma per destino.
Chiunque l'avrà veduta dovrà confessare che non si può mai lodarla abbastanza. Chi vuol veder quantunque può Natura E'l Ciel tra noi, venga a mirar costei, Ch'è sola un Sol, non pur agli occhi miei, Ma al mondo cieco, che virtù non cura. E venga tosto, perchè Morte fura
Prima i migliori, e lascia star i rei: Questa, aspettata al regno degli Dei, Cosa bella mortal passa e non dura, Vedrà, s'arriva a tempo, ogui virtute, Ogni bellezza, ogni real costume Giunti in un corpo con mirabil tempre. Allor dirà che mie rime son mute, L'ingegno offeso dal soverchio lume: Ma se più tarda, avrà da pianger sempre.
Pensando a quel dì, in cui lasciolla si trista, teme della salute di lei.
Qual paura ho quando mi torna a mente Quel giorno ch'i' lasciai grave e pensosa Madonna, e 'l mio cor seco! e non è cosa Che sì volentier pensi, e sì sovente. I'la riveggio starsi umilemente
Tra belle donne, a guisa d'una rosa Tra minor' fior; nè lieta nè dogliosa, Come chi teme, ed altro mal non sente. Deposta avea l'usata leggiadría,
Le perle, e le ghirlande, e i panni allegri, E'l riso, e 'l canto, e 'l parlar dolce umano. Cosi in dubbio lasciai la vita mia:
Or tristi augurj, e sogni e pensier negri Mi danno assalto; e piaccia a Dio che 'nvano!
SONETTO CXCII.
Laura gli apparisce in sonno, e gli toglie la speranza di rivederla.
Solea lontana in sonno consolarme Con quella dolce angelica sua vista Madonna: or mi spaventa e mi contrista; Nè di duol nè di tema posso aitarme: nel suo volto veder parme Vera pietà con grave dolor mista; Ed udir cose, onde 'l cor fede acquista, Che di gioja e di speme si disarme. Non ti sovven di quell'ultima sera, Dic'ella, ch'i' lasciai gli occhi tuoi molli, E sforzata dal tempo me n'andai? I' non tel potei dir allor, nè volli; Or tel dico per cosa esperta e vera: Non sperar di vedermi in terra mai.
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