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Voi, che fareste in questo viver greve?
E sappiate che ciò che scrivo e storio
E vero; che non v'è cosa bugiarda.

Risposta: Io canterei d'Amor sì novamente, ec. Sonetto LXXXVII. pag. 87.

Nella Raccolta di Rime Antiche di diversi, posta dopo la Bella Mano di Giusto de' Conti, della nuova edizione a carte 152, si registra come di maestro Antonio da Ferrara il seguente Sonetto; e nella edizione fatta in Firenze dagli Eredi di Filippo Giunta, l'anno 1522, viene attribuito a Jacopo de' Garatori da Imola.

O novella Tarpea, in cui s'asconde
Quelle eloquenti luci di tesoro
Del trionfal pöetico lavoro
Peneo corse per le verdi fronde,
Aprimi tanto, che delle faconde

Tue luci si dimostrino a coloro
Che aspettano da te: ch'a ciò m'accoro
Più che assetato cervo alle chiare onde.
Deh non voler ascondere il valore

Che ti concede Apollo; chè scïenza
Comunicata suol multiplicare:
Deh apri'l bello stile d'eloquenza,
E vogli alquanto me certificare
Quale fu prima, o Speranza o Amore.

Risposta.

Ingegno usato alle question profonde,
Čessar non sai dal tuo proprio lavoro:
Ma perchè non déi star anzi un di loro,
Ove senza alcun forse si risponde?
Le rime mie son desvïate altronde,
Dietro a colei per cui mi discoloro,
A' suoi begli occhi, ed alle trecce d'oro,
Ed al dolce parlar che mi confonde.
Or sappi che 'n un punto dentro al core
Nasce Amor e Speranza; e mai l'un senza
L'altro non posson nel principio stare.
Se l'aspettato (*) ben per sua presenza
Quetar può l'alma, siccome mi pare,
Vive Amor solo, e la sorella more.

(*) Così corretto con la scorta di un cod. Trivulziano, leggendosi nelle stampe Se'l desviato. L'edizione veneta però del 1820 (Tip. Molinari) legge Se'l desiato.

Canzone morale di maestro Antonio da Ferrara, ridotta a miglior lezione coll'ajuto di un codice Trivulziano.

Io ho già letto il pianto dei Trojani

Il giorno che del buono Ettór fur privi,
Come di lor difesa e lor conforto.
Ei lor sermon fur difettosi e vani
Verso di quei che far devrían li vivi,
Che speran di virtù giungere al porto
Sol
per la fama di colui ch'è morto

Novellamente in su l'isola pingue, (*)
Ove mai non si stingue

Foco nascente, e di Circe l'ardore.
Ahi che grave dolore
Mostrar, nel finimento
Del suo dur' partimento,

Alquante donne di sommo valore,
Con certi lor seguaci per ciascuna,
Piangendo ad una ad una

Quel de' Petracchi fiorentin pöeta
Messer Francesco, e sua vita discreta!
Gramatica era prima in questo pianto,
E con lei Priscïano ed Ugoccione,
Papia grecismo e dottrinale,

Dicendo: Car' figliuol, tu amasti tanto
La mia scienza fin picciol garzone,
Ch'io non trovai a te alcuno eguale.
Chi potrà mai salir cotante scale,
Ove si monta al fin de' miei cunabuli?
Chi potrà dei vocabuli

Le derivazioni ortografare?

Chi potrà interpretare

Li tenebrosi testi?

Quali intelletti presti

Saranno alle mie parti concordare?

(*) Qualche codice ha: Novellamente in l'isoletta pingue. Ma l'una e l'altra lezione mal conviene a determinare il regno o la città di Napoli, ove trovavasi il Petrarca nel 1343 (V. De Sade, Mémoires pour la Vie de Petrarque, tom. II. pag. 178), allorchè si sparse la falsa voce della sua morte. Forse il buon maestro Antonio ha confuso in sua mente il regno di Napoli e l'isola di Sicilia.

Però pianger di te qui più mi giova,
Quanto ch'oggi si trova

Quasi da me ciascun partirsi acerbo,
S'ei sa pur concordare il nome al verbo.
La sconsolata e trista di Rettorica
Seguitava nel duolo a passo piano,
Tenebrosa del pianto in sua figura.
Tullio diretro con la sua Teorica,
Gualfredo praticando e 'l buono Alano,
Che non curavan più della Natura.
Dicea costei: Chi troverà misura
In circüir li miei latini aperti?
Ove saran gli esperti

In saper collegar persuadendo?
Chi ordirà, tessendo

Come si dee le parte,

Il fin delle mie carte,

Memoria ferma di ciò componendo?
Qual più sarà nel proferir facondo,
E negli atti, secondo

Che la materia e che la ragion vuole?
Nol so però di te tanto mi duole.
Con le man giunte, e con pianto angoscioso,
Con le facce coperte vôlte a terra,
Seguía di viri una turba devota.
Prima era Tito Livio doloroso,
Storiografo sommo, il qual non erra:
Valerio dietro a così trista nota;
Del qual non obblïava un picciol jota:
Svetonio, Floro, Orosio ed Eutropio;
E tanti, che ben propio

Non li saprei raccontar per memoria:
Che, poi che fu la gloria

Del gran Nino possente,

Infino al dì presente,

Sapea costui ciascuna bella istoria.

Però pianger possiam, dicean costoro,
Questo nostro tesoro,

Che ne sponeva e che ne concordava;
E il ver teneva, e il soverchio lasciava.
Nove incognite donne ancor fra nui
Batteansi a palme, e squarciavan lor veste,
E i crini lor scioglievan per la doglia:
Correano spesso tutte intorno a lui,
Basciandol tutto; e sappi ch'eran queste
Melpomene ed Eráto e Polinnía,
Tersicore, Euterpe ed Uranía,

Talía, Calliopé con l'alta Clio,
Dicendo: O bello Dio,

Perchè ci hai tolto esto figliuol diletto?
Ove troverem letto

Per riposarci insieme?

Tanto è, che senza speme

Fuor per le selve sta nostro ricetto.
Poi li d'Astrología un messo venne,
Che le donne ritenne

A pianger seco; e tanto avean di duolo,
Come conviensi a poetico stuolo.
Diretro a tutte, solamente, onesta
Seguía la sconsolata vedovella,

Nel manto scur facendo amaro suono:
E chi mi domandasse chi era questa,
Dirò: Filosofia (io dico quella,

Per cui s'intende al fin sol d'esser buono);
Dicendo: Ahi sposo mio, celeste dono,

In cui Natura e il Ciel pose

Ciò che in Angel conviene,

di bene

Chi potrà omai le mie virtù servire?
Poi la vidi seguire

Aristotile e Plato,

E il buon Seneca, e Cato;

Ed altri più, che qui non si può dire:

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