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Ottava ascritta al Petrarca.

Fondo le mie speranze in fragil vetro,
E i miei vani pensier dipingo in aria:
Penso pur gir avanti, e torno addietro;
Fortuna al mio voler sempr'è contraria:
Pace dimando, e crudel guerra impetro;
Nè puossi altro sperar in donna varia,
Perch'ella è più leggier' ch'al vento foglia,
E mille volte al giorno cangia voglia.

I due componimenti che seguono, furono tratti dall' Opera Petrarca, Giulio Celso e Boccaccio, ec.; Trieste, per G. Marenigh, 1828 = dell'illustre sig. Avvocato Domenico Rossetti, chiarissimo cultore degli ameni studii, e specialmente de' bibliografici.

Si mi fa risentire a l'aura sparsi

I mille e dolci nodi infino a l'arco, Che dormendo e vegliando ora non varco Che la mia fantasia possa acquetarsi. Or veggio lei di nuovi atti adornarsi, E cingere il carcasso, e farsi al varco, E sagittarmi: or vo d'amor si carco, Che'l dolce peso non potría stimarsi. Poi mi ricordo di Venere Idea,

Or

Qual Virgilio dimostra sua figura;
E parmi Laura in quell'atto vedere
pietosa vêr me, or farisea.

Vo vergognoso, e 'n atto di paura
Quasi smarrito a forza di piacere.

Per riposarsi sulle calde piume,
E contentar la gola e gli occhi sciolti,
Ho già veduto basso cader molti
C'hanno perseverato in tal costume.
Or fa del cor e della mente un fiume
Pien di virtù; nell'animo raccolti
Vanno i pensieri, partiti da' stolti
Che vivon oggi nel bestial lordume.
Deh, non credi già, per dir: Io mi godo!
Giammai d'aver di te fama nè lodo.
Ma, se vuoi fama, in ben far t'affatica,
E non nell'esser paglia senza spica.

Canzone di Guido Cavalcanti, accennata
dal Petrarca nella sua V. a p. 43. (*)
Donna mi prega; per ch'io voglio dire
D'uno accidente che sovente è fero,
Ed è si altero, ch'è chiamato Amore:
Sì, chi lo niega possa il ver sentire.
Ed al presente conoscente chero;
Perch'io non spero ch'uom di basso core
A tal raggio ne porti conoscenza:
Chè senza natural dimostramento
Non ho talento di voler provare
Là dove ei posa, e chi lo fa crïare;
E qual sia sua virtute e sua potenza;
L'essenza, e poi ciascun suo movimento;
E' piacimento che 'l fa dire amare;
E s'uomo per veder lo può mostrare.
(*) Per questa e le due seguenti Canzoni mi
sono attenuto particolarmente al testo che leggesi
nelle Rime Antiche impresse da' Giunti di Firen-
ze nel 1527, edizione citata nel Vocabolario degli
Accademici della Crusca.

VOL. I.

*17

In quella parte, dove sta memóra,
Prende suo stato, si formato, come
Diafan da lume, d'una oscuritate
La qual da Marte viene, e fa dimora.
Egli è criato; ed ha sensato nome,
D'alma costume, e di cor volontate.
Vien da veduta forma che s'intende,
Che prende nel possibile intelletto,
Come in suggetto, loco e dimoranza.
In quella parte mai non ha posanza,
Perchè da qualitate non discende.
Risplende in sè perpetuale effetto.
Non ha diletto, ma consideranza;
Sicch'ei non puote largir simiglianza.
Non è virtute, ma da quella viene;
Perchè perfezion si pone tale.
Non razionale, ma che sente, dico:
Fuor di salute giudicar mantiene;
Chè là intenzion per ragion vale.
Discerne male in cui è vizio amico.
Di sua potenza segue spesso morte,
Se forte la virtù fosse impedita,
La quale äíta la contraria via:
Non perchè opposta naturale sia;
Ma quanto che da buon perfetto tort'è,
Per sorte non può dire uom, ch’aggia vita;
Chè stabilita non ha signoría:

A simil può valor quando s'obblía.
L'essere è quando lo volere è tanto,
Ch'oltra misura di natura torna:
Poi non s'adorna di riposo mai:
Muove, cangiando core e riso e pianto;
E la figura con päura storna:
Poco soggiorna. Ancor di lui vedrai,
Che 'n gente di valor lo più si trova.
La nuova qualità move i sospiri ;

E vuol ch'uom miri in un formato loco; Destandosi ira, la qual manda foco. Immaginar nol puote uom che nol prova: Già non si muova perch'a lui si tiri; E non si giri per trovarvi gioco, Nè certamente gran saper, nè poco. Di simil tragge complessione sguardo, Che fa parere lo piacere certo: Non può coverto star quando è sì giunto. Non già selvagge le bestà son dardo; Chè tal volere per temere esperto Consegue merto spirito ch'è punto: E non si può conoscer per lo viso Compriso, bianco; in tale obbietto cade: E, chi ben vade, forma non si vede; Perchè lo mena chi da lei procede Fuor di colore d'essere diviso, Assiso in mezzo oscuro luci rade: Fuor d'ogni fraude dice degno in fede, Che solo di costui nasce mercede. Tu puoi sicuramente gir, Canzone, Doye ti piace; ch'io t'ho si adornata, Ch'assai lodata sarà tua ragione Dalle persone c'hanno intendimento: Di star con l'altre tu non hai talento.

Canzone di Dante Allighieri, accennata dal Petrarca nella sua V. a pag. 43.

Cosi nel mio parlar voglio esser aspro,
Com'è negli atti questa bella pietra,
La quale ogn'ora impetra

Maggior durezza, e più natura cruda;
E veste sua persona d'un diaspro:
Tal che per lui, o perch'ella si arretra,

Non esce di faretra

Säetta che giammai la colga ignuda.
Ed ella ancide: e non val ch'uom si chiuda
Nè si dilunghi da' colpi mortali;
Chè, come avessero ali,

Giungono altrui, e spezzan ciascun'arme:
Per ch'io non so da lei nè posso aitarme.
Non trovo scudo ch'ella non mi spezzi;
Nè luogo che dal suo viso m'asconda:
Ma, come fior di fronda,

Cosi della mia mente tien la cima.
Cotanto del mio mal par che si prezzi,
Quanto legno di mar che non lieva onda.
Lo peso, che m'affonda,

E tal, che nol potrebbe adequar rima.
Ahi angosciosa e dispietata lima,
Che sordamente la mia vita scemi,
Perchè non ti ritemi

Rodermi così 'l core a scorza a scorza, Com'io di dire altrui, Chi ti dà forza? Chè più mi trema il cor qualora io penso Di lei in parte ove altri gli occhi induca; Per tema non traluca

Lo mio penser di fuor sì, che si scopra;
Ch'io non fo della Morte: chè ogni senso
Con li denti d'Amor già si manduca
Ciò che nel pensier bruca

La mia virtù, sicchè n'allenta l'opra.
Ei m'ha percosso in terra, e stanimi sopra
Con quella spada ond'egli uccise Dido,
Amore a cui io grido,

Mercè chiamando, ed umilmente il priego:
E quei d'ogni mercè par messo al niego.
Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida
La debole mia vita esto perverso,
Che disteso e riverso

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