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la vita di lui fosse stata più lunga, io avrei posto fine del tutto alle mie mutazioni ed a'miei viaggi. Ma, oimè, nessuna cosa quaggiù è durevole; e se qualche dolce ci si fa sentire, il subito suo fine è amaro: di poi due anni non compiuti Iddio lo tolse a me, e alla patria, ed al mondo, già lasciato da lui; nè di lui eravamo degni (amor non m'inganna) nè io, nè la patria, nè il mondo. Benchè poi ne rimanesse il figliuolo di lui, il quale fu uomo prudentissimo, e sempre, secondo l'esempio del padre suo,m’ebbe caro; io nondimeno, perduto quello, col quale convenivami in ogni cosa, e nell'età spezialmente, di nuovo ritornai nelle Gallie, non sapendo come stare fermo : nè ciò io feci per voglia di riveder quelle cose vedute mille volte; ma per desiderio di alleviar le mie noje, alla guisa degl'infermi, colla mutazione de'luoghi.

(17) Ma alla fine io ritornai in Padova, dove o per l'età mia, o per li miei peccati, o per l'una cosa e per l'altra, come io credo, fui infermo tre anni interi. (18) La febbre, divenutami già famigliare, un dì mi prese violentissimamente. Subito convennero i medici, altri per comandamento del figliuolo di Jacopo, ed altri l'amicizia per loro verso di me. Essi, fatte molte quistioni, com'è costume; definirono che io era per morire in sulla mezza notte; e di quella notte già volgevano le ore prime. Voi vedete quanto breve spazio di vita restavami, se fossero state vere quelle cose, le quali favoleggiano questi nostri Ippocrati. Ma essi ogni di più e più mi confer

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mano in quella opinione che di loro sempre io ebbi. Dissero che l'unico rimedio di allungarmi d'un poco la vita potea essere, se per non so quale artificio loro io fossi tocco si, che il sonno non mi pigliasse ; che per tal modo io sarei forse vissuto infino all'aurora: mercè penosa di sì breve spazio; ed il togliermi il sonno in quello stato, era pur il medesimo che darmi certa morte. Per tanto non furono punto obbedili; imperciocchè io così pregai gli amici, così comandai a' famigliari, che niente di quello, che da'medici fosse detto, mai fosse fatto sopra il mio corpo; e che, se pur qualche cosa al tutto far si dovesse, la contraria fosse fatta. Per il che io passai quella notte in un sopore dolce e profondo, e alla placida morte, come Virgilio disse, somigliantissimo. A che più parole? Tornati que' medici la mattina seguente, forse per assistere alle mie esequie, trovarono che io, il qual dovea morire nella mezza notte, stava scrivendo; ed attoniti non ebbero altro a dire, se non che io era un uomo maraviglioso.

Così dunque mi volve e mi rivolve la mia ventura; e quantunque talvolta io sembri sano, pur sempre, siccome credo, io sono infermo; altrimenti onde spuntar potrebbero in me febbri sì rapide, e l'una appresso l'altra rigermogliare? Ma che rileva ch'io fossi morto in quella mezza notte, o che io muoja in un altro istante? Di certo a quel fine io me n'andava. Che nuoce adunque a chi è per cadere s'egli cade, o che giova il rilevarsi a chi è per ruinare ben tosto ?

Pur finalmente la mia sentenza è questa: che a me altro più non rimane da pensare, nè altro più da desiderare, se non se un fine buono; e già questo n'è certamente il tempo. (19) Per la qual cosa non volendomi io allontanar troppo dal mio Benefizio, in uno de'colli Euganei, di lungi dalla città di Padova presso a dieci miglia, edificai una casa piccola, ma piacevole e decente, in mezzo a poggi vestiti d'ulivi e di viti, sufficienti abbondevolmente a non grande e discreta famiglia. Or qui io traggo la mia vita; e benchè, come ho detto, infermo nel corpo, pur tranquillo nell'animo, senza romori, senza divagamenti, senza sollecitudini, leggendo sempre e scrivendo, e lodando Dio, e Dio ringraziando, come de' beni, così de'mali, che, s'io non erro, non mi sono supplicii, ma continue prove. E in questo mezzo io fo orazione a Cristo, acciocchè egli faccia buono il fine della mia vita, e mi abbia misericordia, e mi perdoni, anzi dimentichi i peccati miei giovenili; onde sulle mie labbra nessuna voce in questa solitudine più soavemente risuoche quel verso de'salmi: Delicta juventutis meae, et ignorantias meas ne memineris. (20) E con ogni affetto del cuore prego Iddio che gli piaccia, quando che sia, di porre freno a' miei pensieri, per così lungo tempo instabili ed erranti; e da poi che furono invano sparti in molte cose, di convertirli a sè, unico, vero, certo, incommutabile Bene.

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(8)... 398....36.ib.

Op. omnium Fr. Petrarchæ, edit. Basil. Henr. Petri. 1554.

Epist. famil. Fr. Petrarchæ, edit. Lugd. apud Crispinum. 1601.

Op. omnium Fr. Petrarchæ, edit. Basil. Henr. Petri. 1554.

(9) Ex Cod. Virgil. in Biblioth. Ambrosiana.

(10) Pag. 399 lin. 34.

(1 1) . . . . . . .

...

....

Op. omnium Fr. Petrarchæ, edit. Basil. Henr. Petri. 1554.

45. et ib. pag. 400, lin. 9.

11. ib.

(12) ... ††b........ 1.ib, (13)... 639.... 48. ib. (14)...††3.. (15)...767. 18. ib. (16)...††3. (17).. 1037.... 13. ib. (18).. 1019.. 8. ib. (19).. 1037. 37. ib. (20)...696....26. ib.

....

29. ib.

Luoghi nei quali la presente edizione del Canzoniere si scosta da quelle di recente data.

Pag. vers.

2. 14. E a voi armata non mostrar pur l'arco. 12. 14. Chè tien di me quel d'entro, ed io la scorza. 18. 17. E avrò sempre ov' io sia, in poggio o 'n riva. 108. 8. Quei che solo il può far, le ha posto in mano. 120. 25. Oh la nemica mia pietà n'avesse! 125. 25. Per bellissimo amor questi al suo tempo. 133. 19. Con i sospir söavemente rotti:

239. 23. Sonsen andati; e sol Morte m'aspetta. 291. 9. Mutai per tempo, e la mia prima labbia. 300. 8. Qual altrui far non soglio, che tu passi 305. 54. Quel di fuor miri, e quel d'entro non veggia. 312. 15. Ch'a gl' ingrati troncar, a bel studio erra; 315. 35. Che, una treccia raccolta e l'altra sparsa, 325. 9. E vedrà il vaneggiar di questi illustri.

Altre leggono:

Ed a voi armata non mostrar pur l'arco.
Che tien di me quel dentro, ed io la scorza.
Ed avrò sempre, ov' io sia, in poggio, o'n riva.
Quei che solo il può far, l'ha posto in mano.
O la nemica mia pietà n' avesse.

Per bellissimo amor quest'al suo tempo.
Coi sospir soavemente rotti.

Sonsen andati; e sol Morte n'aspetta.
Mutai per tempo, e le mie prime labbia.
Qual altrui far non soglio; e che tu passi
Quel di fuor miri, e quel dentro non veggia.
Ch' agl' ingrati troncar, a bel studio erra;
Con una treccia avvolta, e l'altra sparsa,
E vedra' il vaneggiar di questi illustri.

ERRATA-CORRIGE

leggi scorno. V. i v. 25. e 28.

scorno;

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394. 6. costume,

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