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Nel notare la differenza che passa dall' uno all' altro di questi Sonetti, il critico lettore avrà veduto, che sebbene bello e dignitoso sia pur quello del Cavalcanti, il primo quartetto di esso è alquanto debole nè corrisponde nell' artifizio alle altre parti del componimento. Il terzo verso in ispecie pare non essere stato lì posto che pel comodo della rima. Ma il So Sonetto di Dante va dal principio al fine dignitosamente e senz' intoppo veruno; ed il metro e la rima anzichè tiranneggiare il poeta, sembrano essergli obbedienti cotanto da divenire nelle sue mani istromenti di nuova e sublime bellezza. Per testimonianza infatti del suo figlio Piero, sappiamo ch'ei solea darsi vanto di non esser giammai stato costretto dalla tirannia della rima a dir cose ch' egli non avesse in prima pensate, ma di averla anzi saputa piegare a' suoi voleri e a' suoi concetti, senza alterarne punto le leggi. A riuscire in ciò, volevasi, non ha dubbio, artifizio grandissimo, specialmente quando il metro portava seco molte difficoltà. Laonde quei poetici componimenti, che hanno rime intermedie, essendo i più scabri e i più difficili, ne porrò sott' occhio del lettore alcun tratto, affinchè possa vedere come Dante in quelli riuscisse, e quanto a giusto titolo si desse egli il vanto ora accennato. La Canzone alla Morte ne offre un esempio:

« Morte, poich' io non trovo a cui mi doglia,

Nè cui pietà per me muova sospiri

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Un altro esempio può aversi nella Canzone XVII.

« Poscia ch' Amor del tutto m'ha lasciato

Non per mio grato,1

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Chi è pertanto, il quale in questi versi non scorga, unitamente all'aggiustatezza de' concetti, la proprietà della locuzione e la spontaneità delle rime? Nulla può riscontrarvisi di forzato e contorto, nè una frase o una parola pure d'ozioso e di superfluo. La poesia sotto la penna d'un rimatore si valoroso e sì destro, prende un andamento cotanto elegante, una venustà così naturale, che a prima vista non potrebbe ravvisarvisi l'artifizio poetico, se non si sapesse esser arte grandissima il nasconder l'arte.

Anche il Petrarca volle dar prova dell'ingegno suo in tal maniera di poetici componimenti:

<< Mai non vo' più cantar com' io soleva:

Ch'altri non m'intendeva; ond' ebbi scorno;

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E prima del Petrarca, Cino da Pistoia:

« Cosi fu' io ferito risguardando:

Poi mi volsi tremando ne' sospiri,

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Ma quivi questi due Poeti troppo, dobbiamo dirlo, fecero sfoggio di rime, cosicchè una tal poesia invece di procedere col sostenuto andamento della Canzone, sembra piuttosto tenere la maniera capricciosa e saltettante della Frottola, o del Ditirambo. In questo, che non so se debba dirmi difetto, caddero pure Guido Cavalcanti e Guido dalle Colonne, cui que' rimatori susseguenti tolsero ad imitare. Meglio però al Petrarca riuscì una tal prova nella Canzone Vergine bella, ov'ei s'avvisò d'essere assai più parco di rime intermedie, una sola in ciascheduna stanza ponendone, e questa nel fine, nella guisa seguente:

« Soccorri alla mia guerra

Bench' io sia terra,

e tu del ciel regina. »>

Quella Canzone, che dalla forma e dalla tessitura delle sue stanze, vien chiamata antica Sestina, è pur essa un componimento assai malagevole; perciocchè la troppa distanza delle consonanze le dà l'aspetto d'un componimento languido, e privo di grazia e d'armonia, e la ripetizione continua delle stesse voci finali porta seco agevolmente il rischio di risvegliare press' a poco le stesse idee. Vuolsi adunque nel poeta molt' arte e molta copia di concetti a far sì che un tale componimento, scabro e disarmonico di sua natura, riesca leggiadro, pieno, e maestoso. Bella nulladimeno, ed assai ben condotta, dee dirsi la Sestina di Dante, la quale incomincia:

« Al poco giorno, ed al gran cerchio d'ombra. »

Ancor più difficile si è l'altro genere di Canzone, chiamata Sestina doppia: dalla seguente peraltro, di cui riporto solo una stanza, potrà conoscersi quanto il nostro Poeta fosse maestro in tuttociò, che all'arte spetta del verseggiare. Con sole cinque voci finali, cioè donna,

tempo, luce, freddo, pietra, egli riuscì a fare una Canzone, non breve al certo, perchè composta di sessantasei versi, la quale per la varietà e nobiltà de' concetti, per la proprietà delle espressioni, per la vivezza delle immagini e per l'artifizio poetico, può dirsi in ogni sua parte compiuta e perfetta, ed infallibilmente superiore a quante di simili se ne rinvengono in tutti gl'italiani poeti :

<< Amor, tu vedi ben, che questa donna

La tua virtù non cura in alcun tempo
Che suol dell' altre belle farsi donna.
E poi 's' accorse ch' ell' era mia donna,
Per lo tuo raggio ch' al volto mi luce,
D'ogni crudelità si fece donna,

Sicchè non par, ch'ell' abbia cuor di donna,
Ma di qual fiera l' ha d'amor più freddo;
Chè per lo tempo caldo e per lo freddo

Mi fa sembianti pur com' una donna,

Che fosse fatta d'una bella pietra

Per man di quel che me'intagliasse in pietra. ec. >>

Questa maniera di poesia, se piacque a Dante talvolta, piacque altresì al Petrarca, il quale ci ha dato nel suo Canzoniere alquante di tali Sestine e semplici e doppie. Ma in simili componimenti essendo il Poeta obbligato (come qui sopra accennai, e come può vedersi dal brano riportato) a ripetere in ogni stanza, con ordine peraltro inverso, i vocaboli stessi con che terminano i versi della prima, * è molto difficile, ch' ei giunga ad uscirne con plauso, non potendo se non per opera di grande ingegno e di molto studio far servir sempre le stesse parole alla varietà de' concetti. Può adunque facilmente accadere, che la cosa stessa si ridica quivi più volte, che si , cada in freddure, e più particolarmente che si pongano delle espressioni non naturali, e delle frasi lambiccate e contorte. Così appunto accadde a parecchi rimatori contemporanei dell' Alighieri; ed il Petrarca altresì, abbenchè in ogni sua cosa sì forbito e sì terso, sembra in un tal genere di componimento non essere molto felicemente riuscito. Questo almeno è il giudizio del Tassoni, giudizio pur dato

1 Cioè, e poichè.

dal Sismondi allor che egli nella sua Istoria della letteratura del Mezzogiorno dell' Europa, prese, fra le altre cose, a fare una censura delle Sestine del Cantore di Laura.

Cino da Pistoia, dolente per la perdita della sua amata, scrisse una Canzone, la quale comincia La dolce vista e'l bel guardo soave. Essa, non ha dubbio, racchiude qualche tratto peregrino e passionato sì come quello,

« Quando per gentil atto di salute'

Ver bella donna levo gli occhi alquanto,

Si tutta si disvia la mia virtute,

Che dentro ritener non posso il pianto,

Membrando di Madonna, a cui son tanto
Lontan di veder lei:

O dolenti occhi miei,
Non morite di doglia?

Si per vostro voler, pur ch' Amor voglia.

Ma quanto essa non è inferiore ai componimenti che Dante scrisse intorno un eguale subietto? La Canzone alla Morte, che apparisce dettata nel tempo d'una grave malattia di Beatrice, è una delle più affettuose di lui, e delle più belle che si abbia la lirica italiana. Tutte le stanze di questa Canzone cominciano con una invocazione alla Morte; e ad essa il Poeta le sue parole dirige, perciocchè vuol far prova d'ammansirla: egli espone tutte le ragioni, che il cuore e l'intelletto potean suggerir ad un amante per arrestare il colpo fatale; e termina sperando che la Morte si rimuova dal suo fiero volere sì che al mondo possa tuttavia far dono di se quell' anima gentile, cui dono di se aveva fatto il Poeta. Ma questi concetti con qual bellezza di modi, con quale incanto di stile, con qual magnificenza di poesia sono significati!

<< Io vengo a te, com' a persona pia,

Piangendo, o Morte, quella dolce pace,
Che il colpo tuo mi toglie, se disface
La donna che con seco il mio cor porta,
Quella ch'è'd' ogni ben la vera porta.....

1 Saluto, salutazione.

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