Beltà di corpo, e d'anima bontate; Fuorchè le manca un poco di pietate. Questa Canzone, quantunque tersa e graziosa, non è di Dante Alighieri. In essa non ravvisasi il solito stile elevato, sentenzioso e conciso, ch'è proprio di tutte le altre che sono di lui. In essa si parla della donna, di cui il poeta è innamorato, in un modo minuzioso e prolisso, che non è quello di Dante; come per esempio: << Poi guardo l' amorosa e bella bocca, La spaziosa fronte e 'l vago piglio, Li bianchi denti, e 'l dritto naso, e 'l ciglio << Poi guardo i bracci suoi distesi e grossi, Guardo le lunghe e sottilette dita.... >> In essa si descrive la passione d'amore con tali concetti di sensualità, da' quali Dante mostrossi sempre lontano; come per esempio: vedi allegro dar di piglio In su quel labbro sottile e vermiglio, vedi allegro il bel diletto, Aver quel collo fra le braccia stretto, E fare in quella gola un picciol segno.... >> E nonostante che al tempo dell'Alighieri non fosse il gusto ancor del tutto formato, pure quel paragonare la sua donna ad un pavone e ad una gru, « Soave a guisa va d' un bel pavone, avvalora sempre più il giudizio, che la Canzone non possa essere di quel sommo Poeta, che fu il padre della grave e maschia poesia italiana, ed il quale parlò sempre di Beatrice in un modo gentile e dignitoso. Infatti nella Proposta, alla voce Induare, ci dice il Monti, che questa Canzone ha tutta l'aria dello stile di Fazio degli Uberti, a cui realmente un prezioso Codice già posseduto dal Perticari, ed un altro della Laurenziana, segnato di N. 46, Plut. XL, l' attribui scono. Col nome di Dante Alighieri non ritrovasi in alcuno de' tanti Codici Magliabechiani, Laurenziani, Riccardiani ed altri da me veduti; col nome di lui non ritrovasi nell' edizione Giuntina, ma bensì a c. 122 retro con quello d' Incerto. Su quale autorità la potremmo dunque tener di Dante, quando nissun Codice a Dante l'attribuisce, quando lo stile esclude la possibilità che a Dante appartenga, quando l'edizione principale a Dante la nega? Vero è che col nome del nostro Poeta vedesi stampata nella veneta edizione del 1518, sulla cui sola autorità la riprodussero nel secolo scorso il Pasquali, lo Zatta ed altri, ma quell'edizione per le tante sue inesattezze non merita alcuna o ben piccola fede. Quindi si ritenga che la Canzone è spuria. 1 'La Canzone, da cui l'Abate Melchior Missirini trae il principale argomento per delineare il ritratto di Beatrice, e dedurne quindi l'identità con quello ch' ei possiede in una dipinta Tavola antica, è appunto questa che noi abbiamo provato essere apocrifa. Quindi (senza peral tro escludere la possibilità che quella pittura rappresenti Beatrice) ognun vede che il fondamento, dal Missirini tratto da questa Canzone, posa in sul falso. (Vedi il Commentario sull' amore di Dante, e sul ritratto di Beatrice, Firenze 1832.) CANZONE. Perché nel tempo rio Dimoro tuttavia aspettando peggio, Mai consolar, se non m' aiuta Iddio, A lui, che vegna nel soccorso mio: Ché miseri, com' io, Sempre disdegna, come or provo e veggio. Non mi vo' lamentar di chi ciò face, Perch' io aspetto pace Da lei sul punto dello mio finire; Ch'io le credo servire Lasso così morendo, Poi le disservo e dispiaccio vivendo. Deh che m'avesse Amore, Prima che 'l vidi, immantenente morto; Ché per biasmo del torto Avrebbe a lei ed a me fatto onore : Tanta vergogna porto Della mia vita, che testé non more, Nel qual d'amar la gente disconforto ; L'un per usanza, e l'altra per sua forza : Sicch' io vo', per men male, Morir contro la voglia naturale. È tanto forte, che spesse fïate Daria al mio cor la morte più leggera : Dell'anima mia trista, che non pera, Ella non muor, ma viene in gravitate: Ch' a ciò per soverchianza non mi mova Ma avrà forse mercede Allor di me il Signor che questo vede. Acciocchè io pianga teco: Ch'io non so dove tu ti possa andare; Ciaschedun altro ha gioia: Non vo' che vada altrui facendo noia. Questa Canzone fu malamente attribuita a Dante Alighieri dalla veneta edizione del 1518. I Giunti peraltro non fecero ad essa luogo nella loro raccolta del 1527, se non che stampandola in fine del volume a c. 127 sotto il nome d'incerto autore. Di oltre venti Codici da me esaminati, nissuno porta questa Canzone col nome di Dante, mentre in alcuni, siccome nel Laurenziano 37, Plut. XC, sta col norne di Cino. Fra le poesie infatti di questo giureconsulto poeta la stamparono il Pilli ed il Ciampi sull'autorità di più Codici. II Cod. Bossi, il Cod. Bembo, il Cod. Medici, ora nella Trivulziana (dei quali dà ragguaglio il Ciampi nella sua edizione del 1813) l' attribuiscono anch'essi al poeta medesimo. Il Corbinelli nella Bella Mano, il Trissino nella Poetica, il Quadrio nella Storia della volgar Poesia, la citano pur essi non come di Dante, ma come di Cino. Finalmente lo stile meno conciso e meno energico di quello delle Canzoni Dantesche, ne fa piena prova, che non a Dante, ma veramente al suo amico Cino da Pistoia appartenga. CANZONE. Giovene donna dentro al cor mi siede, l' non saprò dischiarar ciò che vede Perché ogni lor virtù ver lei è ita ; Da quel Signor ch' apparve nel chiar viso, Leggiadra, adorna, e quasi vergognosa ; Appresso de' suoi piedi l'alma umile; E posciaché nel gran piacer s'accende, Gli begli occhi si levano soave L'aspra saetta che percosso m' have, E tuttor sempre, nè si chiama stanco Che 'l si converta in amaro sospiro; E s'egli avvien ch' io colga alcun conforto, Ancor di certo ciò non m' assicura ; Anzi sto in paura, Perché di rado nel vincer s' acquista, Poi sulla mente dritto li per meggio · Sicchè li pensier c'hanno vaga spene, Fra lor medesmi si coviglia e strigne : La fantasia, la qual mi spolpa e snerba, Ed è conversa in senso naturale, E di qualunque prima mi rammenta, |