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Ch'è da virtù smarrito,

Se morte non gli fosse sta' noiosa;

Ma suso in ciel lo abbraccia la sua sposa. Ciò che si vede pinto di valore,

Ciò che si legge di virtute scritto,
Ciò che di laude suona

Tutto si ritrovava in quel Signore
Enrico, senza par, Cesare invitto,
Sol degno di corona;

E' fu forma del ben che si ragiona,
Il qual gastiga gli elementi, e regge
Il mondo ingrato d'ogni providenza,
Per che si volta, senza

Rigor, che renda il timor alla legge Contro alla fiamma delle ardenti invegge. Veggiam che morte uccide ogni vivente, Che tenga di quell' organo la vita,

Che porta ogni animale;

Ma pregio, che virtù dà solamente,
Non può da morte ricever ferita,
Perch'è cosa eternale:

A chi 'l permette, amica vola, e sale
Sempre nel loco del saggio intelletto,
Che sente l'aere, ove sonando applaude
Lo spirito di laude,

Che piove Amor d'ordinato diletto,
Da cui il gentil animo è distretto.
Dunque al fin pregio, che virtude spande,
E che diventa spirito nell' are,

Che sempre piove Amore,

Sol ivi intender de' l' animo grande,
Tanto più con magnific' operare

Quant'è in stato maggiore;

Né è uom gentil, né Re, nẻ Imperadore,
Se non risponde a sua grandezza l'opra;
Come facea nel magnifico Prince,

La cui virtute vince

Nel cor gentil, si ch'è vista di sopra,

Con tutto che per parte non si scuopra.
Messer Guido Novello, io son ben certo,

Che'l vostro idolo amor, idol beato,
Non vi rimuove dall' amore sperto,
Perch'è infinito merto;

E però mando a voi ciò c'ho trovato

Di Cesare, che al cielo è incoronato.

Questa Canzone, in cui si piange la morte dell' Imperatore Arrigo VII, attribuita a Dante dalla veneta edizione del 1518, fu rifiutata da tutti i successivi editori, perchè riconosciuta appartenere a Cino da Pistoia. Non si rinviene nè nell' edizion Giuntina, nè in alcuno de' molti Codici delle liriche di Dante da me consultati; ed il Quadrio nel vol. II, parte II della sua Storia citandola, mostra tenerla di Cino piuttosto che di Dante. Ed infatti per poesia di Cino la tenne Faustino Tassò dandole luogo nella sua edizione delle rime di quel poeta, e per poesia di Cino la tenne pure il Ciampi, riproducendola nella raccolta delle rime del pistoiese giureconsulto. Al giudizio di questi editori noi dobbiamo pienamente assentire, perciocchè i modi retorici e lo stile verboso in cui è dettata, escludono la possibilità che al nostro Poeta appartenga.

SONETTO.

Qual che voi siate, amico, vostro manto
Di scienza parmi tal, che non è gioco;
Sicché per non saver, d'ira mi coco,
Non che laudarvi, sodisfarvi tanto.
Sacciate ben, ch' io mi conosco alquanto,

Che di saver ver voi ho men d'un moco;
Nė per via saggia, come voi, non voco :
Cosi parete saggio in ciascun canto.

Poi piacevi saver lo meo coraggio,

Ed io 'l vi mostro di menzogna fore,

Siccom'a quei c'ha saggio il suo parlare.
Certanamente a mia conscienza pare :
Chi non è amato, s'elli è amadore,

Che in cor porti dolor senza paraggio.

Nella raccolta di Rime antiche, Firenze 1527, ove a c. 138 fu riportato il presente Sonetto, si dà la notizia, che fu scritto da Dante Alighieri in risposta a quello di Dante da Maiano, che incomincia Per prova di saver, com' vale o quanto. Ma essendochè per la frase del primo verso s'apprende, che lo scrittore di esso non conosceva il poeta maianese, può dedursi agevolmente, che non fu quegli l'Alighieri e la ragione di ciò si è questa. Dante sul principio della Vita Nuova racconta d'aver composto un Sonetto intorno una sua visione, e di averlo diretto ai più famosi Trovatori che in quel tempo fiorivano. Uno di quelli che a Dante Alighieri risposero, si fu Dante da Maiano con altro Sonetto, ch'è noto per le stampe, nel quale si rinvengono le frasi seguenti:

ti rispondo brevemente,

Amico meo di poco conoscente ec. >>

Di qui pertanto si fa certissimo, che questi due poeti, il maianese e il fiorentino, si conobbero assai di buon' ora, perciocchè quest' ultimo era allora nel suo diciottesimo anno, siccome dice egli stesso nella Vita Nuova al secondo paragrafo. E come mai Dante Alighieri, che fino dalla sua adolescenza conosceva Dante da Maiano, avrebbe nel presente Sonetto, che pur si pretende responsivo ad altro del maianese, usato l'espressione Qual che voi siate, significando per essa di non conoscerlo? Non credo già, che nissuno vorrà oppormi, che Dante potesse averlo dettato innanzi l'età degli anni 18; perciocchè dal passo della Vita Nuova è facile il rilevare, che il fiorentino fu quegli che ricercò in prima l'amicizia del maianese, e non questi di quello, siccome con manifesta contradizione verrebbesi a dire sostenendo una tale opinione, dappoichè il Sonetto non è missivo, ma, come ben si deduce, responsivo.

Torneranno forse inutili queste poche parole, quando si getti l'occhio sopra il componimento, perciocchè di per se stesso si palesa illegittimo: tanto è la sua scipita meschinità; e quando si sappia che nel vol. II, pag. 252 de' Poeti del primo secolo, Firenze 1816, sta col nome di Tommaso Buzzuola da Faenza, di cui per certo debb' essere, ed a cui pur volentieri ne facciamo restituzione. 1

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Non conoscendo, amico, vostro nomo,
Donde che mova, chi con meco parla,
Conosco ben, ch'è scienza di grand' uomo ;
Sicché di quanti saccio, nessun parla:
Chè si può ben conoscere d'un uomo,
Ragionando, se ha senno, che ben parla
Conven; poi voi laudar sarà fornomo,
E forte a lingua mia di ciò com' parla.
Amico certo son, da ciò ch' amato

Per amor aggio; sacci ben, chi ama,
Se non è amato, lo maggior duol porta :
Ché tal dolor tien sotto suo camato

Tutt' altri, e capo di ciascun si chiama :

Da ciò vien quanta pena Amore porta.

Questo laido Sonetto, che nell'edizione Giuntina fu stampato a c. 138 col nome di Dante Alighieri, e che dicesi responsivo ad altro del Maianese, debbesi assolutamente rigettare per tutte quelle medesime ragioni che abbiamo or ora portate per provare l'illegittimità dell' antecedente. Infatti dalla Raccolta de' Poeti del primo secolo, vol. II, pag. 386, apprendiamo che appartiene a Mino del Pavėsaio d'Arezzo. 1

1

<< II Sonetto Non conoscendo, ami» co vostro nomo, che le Rime anti>> che comprendono fra quei di Dan

» te Alighieri, è di Mino del Pave»saio d'Arezzo. » (Arrivabene, Amori ec., pag. CCLXI.)

SONETTO.

Ahi lasso, ch' io credea trovar pietate,
Quando si fosse la mia donna accorta

Della gran pena che lo mio cor porta,
Ed io trovo disdegno e crudeltate,
Ed ira forte in luogo d' umiltate;

Sicch' io m' accuso già persona morta :
Ch'io veggio che mi sfida e disconforta
Ciò che dar mi dovrebbe sicurtate.
Però parla un pensier che mi rampogna,
Com' io più vivo, non sperando mai
Che tra lei e pietà pace si pogna.
Onde morir pur mi conviene omai;
E posso dir che mal vidi Bologna,

Ma più la bella donna ch' io guardai.

Nell' edizione delle Poesie di Cino, procurata da Faustino Tasso, ed in quella fattane dal Ciampi, questo Sonetto si vede attribuito a quel poeta. Col nome di Cino si vede pure in qualche Codice, siccome nel Laurenziano 37 del Plut. XC; ma col nome di Dante non sta che nell' edizione Giuntina a c. 22 retro. Quantunque il Sonetto sia ben condotto, e buona siane la forma, pure per essere attribuito al nostro Poeta manca dell' autorità de' Codici; mentre i versi :

« Onde morir pur mi conviene omai;

E posso dir che mal vidi Bologna,

Ma più la bella donna ch'io guardai, »>

significando lo stato angoscioso del Poeta, per essersi questi innamorato in Bologna di vaga femmina, lo danno a conoscere per componimento del pistoiese giureconsulto. Sappiamo infatti dalla storia, che Cino fece lunga dimora in Bologna, ove, siccome quegli che lasciavasi pigliare ad ogni oncino (Vedi più sopra il Sonetto XL), provò novella passione amorosa; mentre un fatto consimile non lo troviamo nella biografia di Dante Alighieri. Non di Dante è dunque il Sonetto, ma di Cino. 1

1 << D'altra men nota fiamma del>> I Alighieri (dice l' Arrivabene, » Amori e Rime di Dante ec., pa>> gina CLI) sembra porgere indizio

>> il Sonetto Ahi lasso, ch' io cre» dea ec., che così chiude Onde mo>> rire ec. >> Ma questo è un argomentare a ritroso.

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