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SONETTO.

Ben dico certo, che non fu riparo,
Che ritenesse de' suoi occhi il colpo ;
E questo gran valore io non incolpo,
Ma 'l duro cor d'ogni mercede avaro.
Che mi nasconde il suo bel viso chiaro ;
Onde la piaga del mio cor rimpolpo ;
Lo qual neente lagrimando scolpo,
Né muovo punto col lamento amaro.
Cosi è tuttavia bella e crudele

D'amor selvaggia, e di pietà nemica ;

Ma più m' incresce, che convien ch' io 'l dica,
Per forza del dolor che m' affatica,

Non perch' io contr' a lei porti alcun fele,
Che vie più che me l'amo, e son fedele.

Col nome del nostro Poeta fu stampato il presente Sonetto nella raccolta Giuntina a c. 19, e col nome di Cino fu mandato in luce da Faustino Tasso e dal Ciampi. Non solo per lo stile, e per alcuni modi particolari, come il suo bel viso chiaro la piaga del mio cor rimpolpo, si ravvisa essere componimento di Cino, ma altresì per vedervisi artificiosamente nominata Selvaggia, la donna amata Gia Cino:

« Così è tuttavia bella e crudele

D'amor selvaggia.......... » v. 9 e 10.

SONETTO.

Savere e cortesia, ingegno ed arte,
Nobilitate, bellezza e riccore,
Fortezza ed umiltate e largo core,
Prodezza ed eccellenza, giunte e sparte;

Este grazie e virtuti in ogni parte,
Con lo piacer di lor vincon Amore:

Una più ch'altra bene ha più valore
Inverso lui, ma ciascuna n' ha parte.
Onde se vuoli, amico, che ti vaglia
Virtute naturale od accidente,

Con lealtà 'n piacer d'amor l' adovra,
E non a contastar sua graziosa ovra,

Chè nulla cosa gli è 'ncontro possente,
Volendo prender uom con lui battaglia.

Come componimento di Dante Alighieri è riportato questo Sonetto nell' edizion Giuntina a c. 139 retro, ov'è detto essere responsivo a quello di Dante da Maiano che incomincia Amor mi fa sì fedelmente amare. Per lo stile contorto e disarmonico in che è dettato, pel suo fraseggiare languido e rozzo, e più per la sua meschinità, io non so affatto ravvisarlo per componimento di Dante. Ad esso dunque lo denego, e lo ascrivo ad autore incerto, perchè nè in Codici nè in stampe m'è avvenuto mai di riscontrarlo.

SONETTO.

Savete giudicar vostra ragione,

O uom, che pregio di saver portate;
Perchè, vitando aver con voi quistione,
Com' so rispondo alle parole ornate.
Disio verace, u' rado fin si pone,

Che mosse di valore o di beltate,
E immagina l'amica openione,
Significasse il don, che pria narrate.
Lo vestimento aggiate vera spene
Che fia da lei, cui desiate amore;
E 'n ciò provvide vostro spirto bene:
Dico, pensando l'ovra sua d'allore,

La figura che già morta sorvene,
È la fermezza ch'averà nel core.

Anche questo Sonetto vedesi nell' edizion Giuntina a c. 142 col nome di Dante Alighieri, ove dicesi responsivo a quello del Maiane

se, il cui primo verso è Provvedi, saggio, ad esta visione. Pare impossibile che un sì laido e sconcio componimento, così privo di sintassi e di senso, siasi potuto attribuire al grande Alighieri, mentre basta leggerlo solo una volta per riconoscere che non può attribuirsi nemmeno ad un poeta che fosse alquanto al di sotto della mediocrità. Senza alcuno scrupolo io lo ritengo dunque per apocrifo; e poichè nessuna indicazione ho trovato a cui appartenga, dico che dee collocarsi fra le rime d'autori incerti.

BALLATA.

Io non domando, Amore,

Fuor che potere il tuo piacer gradire :
Cosi t'amo seguire

In ciascun tempo, o dolce mio Signore.
Eo sono in ciascun tempo ugual d'amare
Quella donna gentile,

Che mi mostrasti, Amor, subitamente
Un giorno, che m' entrò si nella mente
La sua sembianza umile,

Veggendo te ne' suoi begli occhi stare,
Che dilettare il core

Dappoi non s'è voluto in altra cosa,

Fuor che 'n quella amorosa

Vista ch'io vidi, e rimembrar tutt' ore.

Questa membranza, Amor, tanto mi piace,
E si l'ho immaginata,

Ch'io veggio sempre quel ch' io vidi allora ;
Ma dir non lo potria: tanto m' accora

L'immagine passata

Entro alla mente; ma pur mi do pace;

Che 'l verace colore

Chiarir non si potria per mie parole:
Amor, come si vuole,

Dil tu per me, là ov' io son servitore.

Ben deggio sempre, Amore,
Rendere a te onor, poichè desire
Mi desti d' ubbidire

A quella donna ch'è di tal valore.

Sebbene questa Ballata fosse pubblicata col nome di Dante nella ¡ raccolta Giuntina a c. 17 retro, dal Pilli peraltro nella sua edizione del 1529, e dal Ciampi in quella del 1813, fu restituita a Cino, al quale pur io l'attribuisco, perciocchè, come agevolmente si vede, v’ha qui tutto il fare di Cino e non quello di Dante. Non tralascerò d'avvertire come il Ciampi ne certifica, che in molti Codici si rinviene col nome di Cino, a cui l'ascrive anche il Trissino portandola per modello nella sua Poetica.

SONETTO.

Questa donna, ch'andar mi fa pensoso,
Porta nel viso la virtù d' Amore,
La qual fa risvegliare altrui nel core
Lo spirito gentil che v'era ascoso.
Ella m'ha fatto tanto pauroso,

Poscia ch'io vidi quel dolce Signore
Negli occhi suoi con tutto il suo valore,
Ch'io le vo presso, e riguardar non l'oso.
E quando avvien che que' begli occhi miri,
Io veggio in quella parte la salute,
Ove lo mio intelletto non può gire.
Allor si strugge si la mia virtute,

Che l' alma, onde si muovono i sospiri,
S'acconcia per voler dal cor partire.

Questo Sonetto, che col nome di Dante sta nell' edizione Giuntina a c. 14, fu come di Cino pubblicato dal Pilli, da Faustino Tasso e dal Ciampi. Col nome di Dante non l'ho trovato in alcun Codice, mentre col nome di Cino l'ho veduto nel Cod. 37 del Plut. XC della Laurenziana, e col nome di Cino asserisce il Ciampi trovarsi in due Codici Trivulziani. Quantunque il Sonetto sia ben dettato e ben con

dotto, e senta molto della maniera di Dante, pure non possiamo ascriverlo ad esso, perchè manchiamo affatto d'autorità, mentre dobbiamo ascriverlo a Cino, per le molte autorità che in ciò si trovano concordi.

SONETTO.

Dagli occhi belli di questa mia dama
Esce una virtù d'Amor si pina,
Ch' ogni persona, che la ve', s'inchina
A veder lei, e mai altro non brama.
Beltate e Cortesia sua dea la chiama;
E fanno ben, ch' ella è cosa si fina,
Ch'ella non pare umana, anzi divina,
E sempre sempre monta la sua fama.
Chi l'ama, come può esser contento,

Guardando le virtù, che 'n lei son tante?
E s' tu mi dici : come 'l sai? che 'l sento.
Ma se tu mi domandi, e dici : quante?

Non til so dire; chè non son pur cento,

Anzi più d'infinite e d'altrettante.

Errò grossamente il Giunti, quando nella sua raccolta di Rime antiche stampò a c. 19 col nome di Dante Alighieri il Sonetto presente, il quale per le licenze di lingua, per lo stile contorto e disarmonico, per la debolezza e meschinità, si fa agevolmente ravvisare per poesia di Dante da Maiano. Ed infatti siccome appartenente a questo rozzo poeta citalo il Quadrio, quando nella sua Storia della poesia, alla particella I del cap. IV, parla delle licenze per la rima introdotte, e riporta ad esempio quel verso, in cui sconciamente adoprasi il vocabolo pina invece di piena,

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Chè se il Quadrio citollo siccome del Maianese, è da dirsi che col nome di lui lo ritrovasse ne' Codici. Si tolga dunque dal Canzoniere di Dante Alighieri, e a Dante da Maiano si renda.

DANTE.

1.

18

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