veggia tosto della loro illegittimità, e non dia al Witte l'addebito d'essere stato troppo corrivo; e tanto più maggiormente, quanto che nè egli indicò i Codici nell'autorità de' quali fidava, nè discorse le ragioni per le quali opinava che i due Sonetti potessero appartenere all' Alighieri. Forse il Witte, che nel 1826 era assai giovane, s'avvide poi del suo sbaglio, derivato da immaturo giudizio, e però nell' opuscolo in cui prese a indicare le Rime che sotto nome di Dante erano state dal Muratori in poi prodotte alla luce, non fece punto parola de' due sovraindicati Sonetti; la qual cosa non avrebb' egli omesso di fare, quando non si fosse a quel tempo ricreduto della sua primiera opinione. SONETTO. Volgete gli occhi a veder chi mi tira, Che dice: dunque vuo' tu per niente Agli occhi miei si bella donna torre ? Questo Sonetto, che non trovasi nell' edizione Giuntina, nè in quella del Pasquali o dello Zatta, o in alcun' altra delle primarie, vedesi fra le Rime di Dante Alighieri nel piccol volumetto contenente alcuni de' principali nostri lirici antichi, faciente parte della Biblioteca universale di scelta letteratura, stampata dal Bettoni, Milano 1828. Non sappiamo nè donde sia stato tratto, nè su qual fon damento fosse mai all' Alighieri attribuito. È un Sonetto così scipito, così contorto, e così privo di sintassi e di senso, che, ammesso anche esser guasto alquanto nella lezione, pure non può in alcun modo ammettersi la possibilità che a Dante appartenga. Deve dunque eliminarsi dal suo Canzoniere. E poichè vana mi è riescita in proposito ogni ricerca e sulle stampe e sui Codici, lo ascrivo ad autore incerto. CANZONE. Folli pensieri e vanità di core Hanno sommossa la mia folle mente A ragionar sovente Di quel ch' io taccio, e per vergogna celo. Ogni anima bennata che vi mira Al loco della sua salvazione. Credo parlar; ma questo dirò pria. La qual fu degna d'esser Madre sola ; Rimedio alla superbia ed alla gola. Ai giusti, quando poi volle regnare Fece le sedie a molti ora non digni, Del qual per lo prim' uomo fummo indigni Per lo suo fallimento, Onde eravam dannati a perdimento; Ma l'uno e l' altro difetto si tolse, Perché Madre e Figliuol l'un l'altro volse. Dunque diletto, merito e speranza Deve muovere ogni uomo ad amar quella Cui adora ogni stella ina anza ella ella Ed ogni luce, ch'è creata, inchina. O anima tapina, Che ti diletti in creatura umana, Ché con proponimento di peccare Sovente la pintura onde sospira ; E come quel che fabbrica, e non crede, Fu mai amor che deggia dilettare Più dell' amor di quella Donna, c' have Dove si trova ciò che l'uomo affetta? Iddio elesse in lei incarnare, Quando per l'Angiol le fe' dicer Ave. Oh quanto fu soave Quella salute, della qual s' aspetta Chiunque si diletta Nel degno amor di quella Donna vira, La qual con Dio ne gira E qua giù sempre in core degno splende. Or dunque chi è colui che ne difende D'amar quella pietosa La qual Dio Padre elesse per isposa, Il quale ogni alma, ch'è beata, adora, Che la sua fine disiar gli face; La quale in sogno od in vetro gli appare: Or pensi ognun che se ne può pigliare. Ben pensi ognun, che questo amor conduce Al vero fine ed al beato segno; Parlo e dico del regno, Dove non cape cosa non perfetta, Ch'ogni spirito, degno Del vero amor della sua Madre, aspetta : A cui piace e diletta Che l'uom conosca ch'ei fu Dio ed uomo ; Che in terra venne, e como Elesse il ventre benedetto e santo Per loco degno e convenevol manto Fece portare all' angiol Gabriello Allor che disse: Ave Maria, Dio è tico; Meriti aspetti chi cotal Donna ama. Nel Paradiso, al suo Figliuol li chiama. Che i cuori acciechi e l'anime divori, Con la vana esca del fallace mondo, E come fa l'uccel, che batte l'ale Su per le pane, ognun teco s' offende, Come colui che piombo nel mar prende. Ella è la stella, nella qual chi mira Convien che giunga al porto di salute; Ell' è d'ogni virtute Eletto vaso, ell' è Madre di Dio ; E ricevi l'amor ch'è vero acquisto ; Ed ama quella Donna solamente, Languire alcun, ma con verace pace |