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Ed ho perduti tutti i miei vigori.1
Difendimi, o Signor, dallo gran vermo,2
E sanami, imperò ch' io non ho osso,

Che conturbato possa omai star fermo.3
III. E per lo cargo grande e grave e grosso,

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III. Et anima mea turbata est valde: sed tu, Domine, usquequo?

Tutti i miei vigori, cioè, tutte le mie forze; e intende delle spirituali, perchè per la colpa mortale si perdono in fatti tutti gli abiti soprannaturali, produttivi dagli atti meritorii della grazia, non rimanendo più nel peccatore, che una fede morta, e una fredda speranza.

Vermo, invece di nerme, per cagion della rima: il che usò questo poeta altresi nella Cantica dell' Inferno, VI, 22; XXIX, 64; XXXIV. 108). E per gran vermo intende egli

gran dragone, come si dice nel l'Apocalisse (cap. XII, n. 9): il serpente antico, che è chiamato Diavolo, il quale seduce tutto il mondo ec.

[Vermo per verme non è detto punto per cagion della rima; ma perchè così dicevano gli antichi, e così dicono i moderni, dicendosi anco stile e stilo, confine e confino, sentiere e sentiero, declive e declivo, alpestre e alpestro ec. Molti in generale de' nomi mascolini derivati da' latini della terza declinazione, i nostri antichi li terminavano in e ed in o. Vedi Nannucci, Teorica de' Nomi, Firenze 1847.]

Dante ha nell'interpretazione dell' ultimo senso di questo secondo versetto, seguitato il testo ebraico, che cosi dice: E le mie ossa son divenute tremanti; come che poeticamente abbia egli ciò espresso, dicendo, che non ha osso che possa star fermo. [Così, Inf., VI, 24: Non avea membro che tenesse fermo].

Così trovo in questa traduzione costantemente stampato, cioè cargo invece di carco; discarghi invece di discarchi ec. Në si può ciò attribuire

a errore dell' amanuense, o della stampa: poiché del contrario ci fanno fede le parole compagne di rima, usate nell' interpretazione del terzo Salmo, che sono letargo e largo. Gli Spagnoli dicono cargar e cargo, e i Francesi charger e charge. Per avventura anche a Dante piacque più cargare e cargo, come usan dire i Lombardi, che il toscano carcare e carco. Gli etimologisti derivano la detta voce dal carrus de' Latini cor.. rotto dal currus: onde a' barbari tempi venne il latino carricare, per aggrarare. Così il Pseudo-Jeronimo (De XII Script. Eccles.), parlando d'Origene, lasciò scritto: Oneribus majoribus carricabal se. Ma se derivata fosse la detta voce da carrus, avrebbe dovuto scriversi carricare costantemente con doppia r. Potrebbe per avventura più tosto esser la medesima originata da' popoli della Caria, i quali avevano per lor peculiare mestiero di fare il facchino. E i servi erano appunto da' Greci chiamati cari: onde dicevano nelle lor feste florali: fuori i cari per fuori i famigli; e all' usanza carica era un proverbio appo i medesimi, col quale volevano dire all'usanza facchinesca, cioè, incivile e impropria: del che si può leggere Erasmo Adag. Chil., pag. 25 e 969). Onde da cari. carcare forse all'Italia è venuto; c cargar alla Spagna; siccome dal greco botarica s'è fatto tra noi botarga, e dal greco macara s' è fatto magara, e cosi discorrendo: moltissi me essendo le greche voci, che noi abbiamo, dove la k in g è mutata.

L'anima mia è tanto conturbata,

Che senza lo tuo aiuto io più non posso.
IV. Aiutami, o Signor, tutta fiata :1

Convertimi al ben fare presto presto :
Cavami l'alma fuor delle peccata.3
Non esser contra me così molesto,"
Ma salvami per tua misericordia,

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Che sempre allegra il tristo core e mesto;
V. Perché, se meco qui non fai concordia,

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IV. Convertere, Domine, et eripe animam meam : salvum me fac propter misericordiam tuam.

V. Quoniam non est in morte qui memor sit tui: in inferno autem quis confitebitur tibi?

Fiata è voce trisillaba, come derivata dal verbo fiat de' Latini: nè si è fatta bisillaba mai, che per larga licenza. Tutta fiata vale poi il medesimo che continuamente, con assidui tà, sempre più, o simil cosa. Così il Boccaccio (Giorn. II, nov. 7): Quella non cessando, ma crescendo tutta fiata.

* Questa replicazione dell avverbio presto è molto ben qui locata: perciocchè dimostra la premurosis. sima sollecitudine che Davide aveva di uscir del peccato.

3 I nomi sostantivi era uso antico di terminarli nel plurale alla maniera de' neutri latini, come le pugna e le coltella nel Novelliere; le castella e le munimenta nel Villani; le demonia e le peccata nel Passavanti: onde il Davanzati altresì, a cui piacque vestir le brache all antica, volle pur dire le letta e le tetta ec.

(Il dir le letta e le tetta non è un vestir le brache all' antica, ma e all'antica e alla moderna; e con siffatta doppia terminazione abbiamo qualche centinaio di voci.]

Ottimamente usa qui Dante la

voce molesto, relativamente al cargo detto di sopra: poich' essa, come osservò il Passerat, è fatta da mola, ch' era la pena de' servi, che più lor dispiaceva; e vuol dire: non siate contra me sì cruccioso (fâcheux direbbe un Francese) di lasciarmi più a lungo sotto il peso de miei peccati ec.

5 Di questo stesso argomento si valse poi anche Ezechia (Isaiæ, cap. 38, v. 18): Perciocchè l' inferno, diceva questi, non darà gloria a te; nė la morte loderà te: quelli, che scendono nel lago, non ispereranno nella tua verità.

6 Si ricorde, invece di si ricordi: licenza usata in grazia della rima non pur da Dante, ma dal Petrarca eziandio, che così scrisse: Che convien, ch' altri impare alle sue spese. (Canz.: Mai non vo' più cantar) invece di impari.

[Neppur questa è licenza usata in grazia della rima, perciocchè nelle voci dei pres. del congiuntivo per esempio lu ames, ille amet, attenendosi gli antichi alla terminazione la tina, facevano tu ame, egli ame.]

In morte,1 dove è loco di discordia?

VI. Le tue orecchie, io prego, non sien sorde
Alli sospiri del mio cor, che geme,

E per dolore se medesmo morde.
Se tu discarghi il cargo, che mi preme,2
Io laverò con lagrime lo letto,

E lo mio interno e notte e giorno insieme.

VII. Ma quando io considero l'aspetto

Della tua ira contr' a' miei peccati,

Mi si turbano gli occhi e l'intelletto. Però che i falli miei sonsi invecchiati Più, che gli errori de' nemici miei," E più, che le peccata de' dannati. VIII. Partitevi da me, spiriti rei,

Che allo mal fare già me conducesti,*

VI. Laboravi in gemitu meo: lavabo per singulas noctes lectum meum: lacrymis meis stratum meum rigabo.

VII. Turbatus est a furore oculus meus: inveteravi inter omnes inimicos meos.

VIII. Discedite a me, omnes, qui operamini iniquitatem: quoniam exaudivit Dominus vocem fletus mei.

'Intende dell'eterna morte; poichè nella morte naturale le anime, separatesi dai loro corpi in grazia di Dio, seguitano ad amar lui e a lodarlo. El interpretare, che alcuni han fatto, il Profeta, come se avesse parlato della semplice natural morte considerando qui solo i corpi da se nel sepolcro disanimati, è una stiracchiatura e scipitezza assai frivola.

2 Cioè, se tu mi sgravi della colpa che sommamente mi pesa ec.

3 Intende sotto il nome de' suoi nimici, tutti coloro che l'hanno indotto a peccare, tanto uomini che demonii; e dice di essere afflittissimo, sulla considerazione principalmente, d'essersi invecchiato nella sua colpa, cioè, d'aver in essa per

severato per molti mesi; da che, quando Natano fu ad ammonirlo, già gli era nato di Bersabea il figliuolo: onde per lo men nove mesi dalla sua colpa esser dovean già trapassati. Davide poi qui altamente si umilia, per muovere più a pietà di lui il Signore: paragonandosi e posponendosi infino, per questa sua lunga durazione nel peccato, agli stessi demonii.

Conducesti invece di conduceste. Lionardo Salviati (Avvert., lib. II, cap. 10) scrive, che voi mostrasti, voi diresti, e simili, invece di voi mostraste, voi direste ec., eziandio nel miglior secolo, non che nella favella, alcuna volta trascorsero nelle scritture; e ne allega non pochi esempli, tra i quali sono: Io vorrei che voi mi ve

Ond' io men vado sospirando, Omei!1
Però che il Re dei Spiriti celesti

Ha esaudito lo pregare e 'l pianto

Degli occhi nostri lagrimosi e mesti. IX. Ed oltre a questo lo suo amore è tanto, Che, ricevendo la mia orazïone,

Hammi coperto col suo sacro manto.2

IX. Exaudivit Dominus deprecationem meam: Dominus orationem meam suscepit.

desti (Boccaccio, Gior. VIII, nov. 9); Voi perdonasti alla Maddalena (Tav. Rit.); Per quello che voi mi dicesti (Stor. di Barlaam); Voi facesti tanto, che voi avesti Consoli ec. (Stor. di Livio): ed è divenuto idiotismo si proprio de' Fiorentini il valersi della seconda voce del singolare, invece di quella del plurale, che Giambatista Strozzi nelle sue Osservazioni intorno al parlare e scriver toscano (pagina 52) afferma infino che sarebbe soverchia esquisitezza nel parlare o scrivere familiare, il dire amavale, sentivate ec. invece di amavi, sentivi ec. Onde non è maraviglia, se i poeti si lasciarono talora o dalla necessità della rima condurre a questo modo di dire, ovvero dalla strettezza del verso; come fece Guittone d'Arezzo, che cosi scrisse:

Sospira il core, quando mi sovvenc,

Che voi m' amavi, ed ora non mi amate.

e nel Sonetto: Mille saluti v' mando ec.:

E come a visco angel m'avi pigliato.

Ma queste sono licenze da non praticarsi, che per grave bisogno nei versi: perchè quanto alle prose, i buoni scrittori lasciando ai Fiorentini cosi fatto idiotismo, scriveranno sempre giusta la buona regola, piuttosto che secondo l'abuso di quelli.

[Che per l'esempio de' buoni scrit

tori (oggi che a dritto od a torto sonosi stabilite le regole della grammatica) debbasi scrivere che voi conduceste, direste, vedeste, ec., voi amavate, sentivate ec., non vi ha dubbio; ma che gli antichi, scrivendo che voi conducesti, diresti, vedesti ec., voi amavi, sentivi ec., facessero úso d'un idiotismo, non è vero; e in quest' abbaglio cadde il Quadrio, perchè al suo tempo non si conoscevano bastantemente le origini e le ragioni di nostra lingua.]

Invece di oimè (interiezione), ovvero ahi lasso! che altri disse, o simil cosa. Omei poscia, invece di oimė, fu non solamente dall'Alighieri, ma da altri ancora adoperato. Così il Boccaccio (Amor. Vision., canto 8):

In abito crucciato con costei

Seguia Medea crudele e dispietata ;
Con voce ancor parca dicere, omei!

E Cin da Pistoia (Madrigale, Donna il beato punto):

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X. Onde non temo più l'offensïone

Degl' inimici miei, che con vergogna
Convien che vadan, e confusione:
Però ch' io son mondato d'ogni rogna.1

X. Erubescant et conturbentur vehementer omnes inimici mei: convertantur et erubescant valde velociter.

SALMO II.

1. Beati 2 quelli, a chi son perdonati

Li grandi falli e le malizie loro,

I. Beati, quorum remissæ sunt iniquitates; et quorum tecta sunt peccata.

'La parola rogna, usata da Dante altresì nella Cantica dell' Inferno, dispiacque veramente al Bembo, al Nisieli, e ad altri critici, che riguardandola come incivile e sordida, ne lo censurarono però, e nel ripresero d' averla usata. Ma a giudicare con rettitudine, io credo, che a' tempi di Dante non fosse la medesima si stomachevole e brutta, com'è poi divenuta, e com'era ai tempi del Bembo. Il Menagio nelle Origini della Lingua Italiana deriva si fatta voce dal rubigo de' Latini, per queste vie: rubigo, robigo, robiginis, robigine, rogine, rogina, rogna, per esser la rogna, com'e'dice, quasi la ruggine dell' uomo: e in questa opinione segue egli il Ferrari. Ma ci vuol ben della forza per tenere a sì fatte etimologie le risa. Rogna è fatto dal ronger de' Francesi, che significa rodere: onde ronge, rodimento, che si è poi da' Francesi applicato alla ruminazione degli animali; e in provenzale, rongia per rosione. È poi nota la trasposizione, che in non poche parole fu praticata della ge della n onde ponghiamo e pogniamo

si dice per esempio in Italia, spongia e spogna, venga e vegna, tenga e tegnia. Così di rongia ci venne rogna. Il Bastero infatti (Crusc. Provenz.) questa voce tra quelle pur numera, che ci sono dalla Provenza venute. Ora tal voce, come novamente nella nostra favella a' tempi di Dante introdotta, ne' quali la parlatura francese, o francesca, come dice e narra Brunetto Latini (Tesor.), era la più comune di tutti i linguaggi, perchè non potè egli adoperarla con laude in significato di incentivo, tentazione, stimolo, o simil cosa, nel qual senso è qui in fatti usata, come dal contesto apparisce? Le voci acquistano nell' estimazione degli uomini nobiltà o bassezza dall'uso che se ne fa nel parlare. Potè pertanto la detta parola divenire passo passo triviale, e per fin sordida, come la riputarono a' tempi loro il Bembo e il Nisieli, senza che tale fosse ne' suoi principii, e senza che Dante però peccasse in usarla a'suoi giorni.

Le persone, che godono della grazia di Dio, sono in tre classi di

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