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lignamente già si mette al nego; » e i versi : « Così vedess' io lui fender nel mezzo « Lo core alla crudele ch' il mio squatra » ricordano l' altro dell' Inferno C. 5, v. 16 « Graffia gli spirti, gli scuoja ed isquatra. » Il Castelvetro nella Sposizione della Poetica d' Aristotele dà la taccia a Dante d' avere per astrologia dimostrate le stagioni e l'ore, e parlato di scienze e d'arti non intese dal popolo. Il poeta, a suo dire, non dee mescolare senza necessità ne' suoi poemi cose lon tane dalla capacità del vulgo. Nè Omero, nè Virgilio dimostrarono mai il tempo dell' anno o del dì per nascimento o per cadimento di stelle non conosciute dal vulgo. Dall' esempio de' quali si sono scostati con poca lode Ovidio alcuna volta, e Lucano bene spesso, e più spesso d' ogni altro poeta, Dante nella sua Commedia, rendendola, massimamente per questa via, difficile ad intendere, e meno piacente agli uomini idioti, pe' quali principalmente si fanno i poemi. Ebbene la Cauzone « lo son venuto al punto della rota » parla astronomia tutta Dantesca: il verso: « E quel pianeta che conforta il gielo » fa ricordar l' altro della Commedia « Il bel pianeta che ad amar conforta. » Nella Canzone « Amor, dacchè convien pur ch' io mi doglia » que' versi : « L'angoscia, che non cape dentro, spira » Fuor della bocca sì, ch' ella s' intende » Ed anche agli

occhi lor merito rende » ricordano gli altri del Purg. 30, 97. « Lo giel, che m' era 'ntorno al cor ristretto « Spirito ed acqua fessi, è con angoscia « Per la bocca e per gli occhi uscì dal petto. » Il verso: « E signoreggia la virtù che vuole» così chiamando la volontà, pare dettato da colui, che scrisse nel Purg. 21, 105: « Ma non può tutto la virtù che vuole. » Nella Canzone:

E' m' incresce di me si malamente » per dire: secondo che ricorda la memoria labile, Dante dice: Secondo che si trova « Nel libro della mente che vien meno,» ripetendo quasi il verso 54 del C 23 del Paradiso « Del libro, che 'I preterito rassegna. » La Canzone: « lo sento sì d' Amor la gran possanza» debbe pur essere di colui, che scrivéa nel Purg. 30, 39: « D'antico amor sentì la gran potenza. » Perocchè poi nessun altro poeta ebbe a sperimentare in più tenera età gli effetti di questa potenza, a nessuno spettava meglio che a lui il soggiungere ivi stesso: « E se mercè giovinezza mi toglie « Aspetto tempo che più ragion prenda, « Purchè la vita tanto si difenda. » Chiunque finalmente abbia letto la Vita Nuova, al legger poi nella Canzone: « Amor, che muovi tua vertù dal Cielo» i seguenti versi « Come a colei, che fu nel mondo nata « Per aver signoria « Sovra la mente d' ogni uom che la guata », riconosce tosto in essi que prodigi, che Dante

solo vide operati costantemente dalla sua Beatrice. Non bisogna pertanto lasciarsi imporre da chi ne ragiona vagamente, e si appaga di spargere sospetti. L' Abate Angelo Mazzoleni, recando nelle Rime Oneste la Canzone: « Quantunque volte, lasso, mi rimembra, » osserva in una sua nota, che ivi manca il Commiato, e pensa quindi, che quelle due Stanze non sieno più che il principio di Canzone per lo rimanente perita. Non sarebb' egli caduto in tale errata induzione, se letto avesse nella Vita Nuova, da cui la breve Canzone fu tolta, il relativo Comento. Narra ivi Dante medesimo, che il fratello di Beatrice, suo grande amico, lo avea pregato a dire in versi alcuna cosa per la morte di bella donna a lui diletta, e ch'egli avvedutosi voler quegli così da lui velatamente compianta la morta sorella, espreśse in un Sonetto il proprio, non già l' altrui cordoglio, facendo vista per altro di avere in esso fatto parlare l'amico. Soggiunge poi, che gli parye d' essersi prestato poco premurosamente alla dolorosa fraterna inchiesta, e suppli con due Stan→ ze, nella prima delle quali si lamentava quel suo caro amico, rammaricandosi poi egli stesso nella seconda, e null' altro più aggiungendo al compimento d' una Canzone, per essere quelle due Stanze fatte ad accompagnare il Sonetto, e compiere alla commissione. Quel Niccolò Pilli di Pi

stoja, che pose in luce, in Roma nel 1559 in 8. le Rime di Cino da Pistoja unite a quelle di Bonacorso da Montemagno, meritò che quella sua edizione, oggi assai rara, venisse citata dalla Crusca, mercè della sua diligenza nello esaminare i manoscritti, e nello indicare per fino la persona da cui aveva ricevuto alcun componimento, ogniqualvolta ebbe a produrlo comunicatogli da altri. Ora quel Pilli attribuisce a Messer Cino le seguenti Canzoni: « Perchè nel tempo rio « Dacchè ti piace, Amore, ch' io ritorni « L'ˇuom, che conosce, è degno, ch' aggia ardire « L'alta speranza, che mi reca Amore« Oimè, lasso, quelle trecce bionde » ed inoltre i seguenti Sonetti: « Questa donna, ch' andar mi fa pensoso « Lo fin piacer di quello adorno viso «Io son si vago della bella fuce « Madonne, deh vedeste voi l'altr' ieri», rime tutte, che dal Zatta, nella sua edizione del 1758, vennero comprese fra quelle di Dante. Anche il Sonetto « Molti volendo dir che fosse Amore » leggesi sotto il nome d'incerto dopo la Bella Mano, ed in una Raccolta intitolata Opera moralissima di diversi.

Le stampe dei Giunti non sono sempre le più corrette, singolarmente quelle venute in luce dopo che ne arse la stamperia, lo che avvenne con gran danno nel novembre del 1557. Per altro il Lombardelli, che stampò l'operetta de' punti e degli

accenti, in Firenze per li Giunti nel 1556 in 8. ricorda Filippo Giunti da Firenze tra i sette Stampatori, i quali egli dice essergli stati guide per quella selva intricata. Quindi la edizione delle Rime antiche nel Canzoniero intitolato: Sonetti, Canzoni, ed altre Rime di diversi poeti antichi toscani, in undici libri raccolte da Bernardo di Giunta, e stampate in Firenze per gli eredi di Filippo di Giunta l'anno 1527 in-8., la quale nei primi quattro libri e nell' undecimo presenta Rime di Dante Alighieri, venne citata nel Vocabolario, e fece testo di lingua. Quel sommo Letterato, che ordinò tal Canzoniero, a far manifeste le molte cure da lui poste in ricercare gli antichi Scrittori, si valse della seguente similitu dine: « Non altrimenti fra le eccelse rovine de la infelice Roma poco innanzi a queste sue così crudeli ed estreme calamitati, le molte artificiose statue degli antichi Maestri da la ingiuria e violenza de' tempi in molte parti spezzate e sparse, fino dal profondo ed ultimo seno de la oscura terra, da la diligenza e sollecitudine di qualcuno insieme raccolte, e da ogni bruttura e macchia ripulite, dopo tanti anni intere e salde, non senza grandissima meraviglia, e diletto di ciascheduno, in luce finalmente si vedevano ritornare» Il decimo libro di questa Raccolta presenta, sotto nome d'Incerti, parte di quelle poesie, che

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