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di un esilio quasi trilustre? Questo è il merito dell' innocenza mia, che tutti sanno? E il largo sudore, e le fatiche durate negli studj mi fruttano questo? Lungi da un uomo alla filosofia consecrato questa temeraria bassezza propria d' un cuor di fango; e che io a guisa di prigione sostenga il vedermi offerto, come lo sosterrebbe qualche misero saputello, o qualunque sa vivere senza fama. Lungi da me, banditore della rettitudine, che io mi faccia tributario a quelli, che m' offendono, come se elli avessero meritato bene di me. Non è questa la via per ritornare alla patria, o padre mio. Ma se altra per voi o per altri si troverà, che non tolga onore a Dante, nè fama, ecco l'accetto: nè i miei passi saranno lenti. Se poi a Firenze non s'entra per una via d'onore, io non entrerovvi giammai. E che? forse il sole e le stelle non si veggono da ogni terra? E non potrò meditare sotto ogni plaga del cielo la dolce verità, s' io prima non mi faccio uomo senza gloria, anzi d' ignominia al mio popolo ed alla patria?»>

Benedetta colei, che 'n te s' incinse!

Inf. VIII. 45.

I suoi nemici, che lo avrebbero voluto così avvilito in Firenze, più sdegno prendendo di tale sua fermezza, il citarono a dar malleveria del suo andare a' confini: non essendosi prestato, fu

sbandito di nuovo nell' ottobre dello stesso anno 1315 per sentenza pronunciata da don Rainerio di don Zaccario d' Orvieto, Vicario del Re Roberto di Napoli nella città di Firenze. « Oh scellerati pensieri, prorompe qui il Boccaccio, oh disonesta opera, oh miserabile esemplo, e di futura rovina manifesto argomento! In luogo di meriti altissimi, ingiusta e furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de' paterni beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissima fama con le false colpe gli furon donate. Delle quali cose le recenti orme della sua fuga, e l'ossa nelle altrui terre sepolte, e la sparta prole per l' altrui case, alquanto ancora ne fanno chiari. >> Brutta calunnia, soggiunge il lodato Costa, e crudele vendetta, che non avrebbe avuto luogo fra un popolo, che libero si chiamava, se due freni fossero stati in quella Repubblica: uno alla licenza, ed uno alla tirannide. Ma era nome vanissimo in Firenze la libertà; imperciocchè quelli, che alla pubblica forza imperavano, tenevano congiunta a tanta potenza anche l'autorità d'intromettersi ne' giudizj, di riformare, e di abrogare le leggi, le quali essi ordinavano sovente a pro loro, e a depressione della Setta contraria. Questo fece, che i rancori e le discordie ei tumulti moltiplicassero, e non avessero fine, se non quando il popolo, sotto la balía di una ricca fa

miglia, venne alla quieta servitù, che prese l'onesto nome di pace. >>

Ma la fermia ed altera natura fatto aveva, che Dante fosse già preparato a tutti i colpi della fortuna. Egli,

Con l'animo che vince ogni battaglia,

Inf. XXIV. 53.

aveva già dichiarato, che, ogniqualvolta la sua coscienza non gli facesse rimprovero, la matta fortuna poteva bene, come più erale a grado, girar la sua ruota.

Tanto voglio, che vi sia manifesto,
Pur che mia coscienza non mi garra,
Ch' alla fortuna, come vuol, son presto.
Inf. XV. 9.

CAPO V.

Dante, più che ad altro, badò sempre a difen

dere in sè quella energica considerazione di sè stesso, che i metodi domestici di educazione sogliono anzi snervare, al suo nascere ne' giovani petti. Quindi pieno di gravità, franco, schietto nelle parole e nelle azioni, rigidamente probo, non che di privata, di pubblica probità, fece ben presto ammirare in sè l'ottimo cittadino. Della condotta e dell' opinione politica di lui deve dirsi per la verità, ch' egli pose ogni suo ingegno a voler ridurre in unità il partito corpo della sua Repubblica, mostrando ad ogni cittadino più savio, come le grandi cose per la discordia in breve tempo tornano a niente, e le piccole per la concordia crescono in infinito. Quando finalmente fu spinto a disperarne, invocò il risorgimento del romano impero, come il dimostrano i suggerimenti da lui dati nella sua opera della Monarchia, onde riedificarne l'antica maestà. Tuttora così Dante redivivo:

Dagli eterni silenzj della morte
A veder mi conduco di pentita
Madre ancor bella le virtù risorte.

S' io t' amai, s' io ti feci un dì scaltrita
Del verace tuo meglio, e ti gridai,
Che sol lo scettro ti potea dar vita,
Tu che ancor leggi le mie carte il sai.
Divisa e sconcia da' tuoi vizj in danno
La libertà, diss' io, tu volgerai;

E la volgesti, e ti crescesti affanno :

Ch' ove concordia, e amor di patria è morto;
Fu de' molti il regnar sempre tiranno.
V. Monti.

Pio, giusto, magnanimo, pieno d' ottimi esempi, non visse mai per capanne, nè per taverne; che anzi trovossi alle Corti, e nelle solenni adunanze delle più nobili e costumate persone; dir potendo francamente:

Se non che conscienzia m' assicura,

La buona compagnia, che l' uom francheggia,
Sotto l'osbergo del sentirsi pura.

Inf. XXVIII. 15.

Forte sempre nelle avversità seppe mostrare come la signoria delle umane vicende stiasi in mano di chi sa difendere e rinvigorire nella lotta mondana le forze dell' animo. Non affatto disacconcio ne sembra il qui recare un brano della lettera di Frate Ilario, monaco del convento di Corvo alle foci della Macra, scritta ad Uguccione della Faggiuola. Stavasi il Fraticello alla porta del ino

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