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modo cui certo ei non avrebbe tenuto; che molto vi ha di languido, e che di alcuni Canti appena si può sostener la lettura; che i versi hanno spesso spesso un' insofferibil durezza, e che le rime non rare volte sono così sforzate e strane che ci destano alle risa; che in somma Dante ha non pochi e non leggeri difetti che da niun uomo, il qual non sia privo di buon senso, potranno giammai scusarsi. Ma, in mezzo a tutti questi difetti, non possiamo a meno di non riconoscere in Dante tai pregi che sarebbe a bramare di vederli ne' nostri poeti più spesso che non si veggono. Una vivacissima fantasia, un ingegno acuto, uno stile a quando a quando sublime, patetico, energico che ti solleva e rapisce, imagini pittoresche, fortissime invettive, tratti teneri e passionati, ed altri somiglianti ornamenti onde è fregiato questo, o poema, o, comunque vogliam chiamarlo, lavoro роеtico, sono un ben abbondante compenso de' difetti e delle macchie che in esso s'incontrano. E assai più chiaramente vedremo qual lode debbasi a Dante, se poniam mente a' tempi in cui egli visse. Qual era stata fin allora la poesia italiana? Poco altro più che un semplice accozzamento di parole rimate, con sentimenti per più languidi e freddi, e tutti comunemente

lo

di

d'amore, ovver precetti morali, ma esposti senza una scintilla di fuoco poetico. Dante fu il primo che ardisse di levarsi sublime, di cantar cose a cui niuno avea ardito rivolgersi, di animare la poesia e di parlare un linguaggio sin allora non conosciuto. Ammiriam dunque in lui ciò che anche al presente è più facile ammirar che imitare; e scusiamo in lui que' difetti che debbonsi anzi attribuire al tempo in cui visse il poeta, che al che al poeta medesimo. Io non entrerò qui a rigettare i sogni del p. Arduino che pretese togliere a Dante la gloria di questo lavoro (Mém. de Trév. 1717, août), e se pur essi han bisogno di confutazione, ciò è stato già fatto dall'eruditissimo sig. marchese ab. Giuseppe Scarampi ora degnissimo vescovo di Vigevano (Innanzi al t. 1 dell' ediz. di Dante in Ver. 1749). Solo non è da omettere che Dante avea cominciata quest'opera in versi latini, e oltre i tre primi versi che il Boccaccio ne recita nella Vita di lui, alcuni codici si conservano che ne hanno un numero anche maggiore (V. Pelli loc. cit. §. 17 p. 111 nota 3). Ma ei fu saggio in mutare consiglio; poichè verisimilmente egli avrebbe ottenuta fama minore assai scrivendo in latino, come è avvenuto al Petrarca.

Appena la Commedia di Dante fu publi

cata, ch'ella divenne tosto l'oggetto dell' ammirazione di tutta l'Italia. E ne son pruova non solo i moltissimi codici che ne abbiamo, scritti in quel secol medesimo, ma più ancora i comenti con cui molti presero ad illustrarla. E tra' primi a farlo furono, come ben conveniva, Pietro e Jacopo figliuoli di Dante, delle cui fatiche sopra il poema del padre, che ancor si giacciono inedite, parlano il sig. Pelli (§. 4) e l'ab. Mehus (Vita Ambr. camald. p. 180), il qual secondo scrittore accenna ancora ( Ib. e p. 137) i Comenti di Accorso de' Bonfantini Francescano, di Micchino da Mezzano canonico di Radi un anonimo che scrivea nel 1334, e di più altri spositori di Dante in questo secol medesimo. Giovanni Visconti arcivescovo e signor di Milano circa l'anno 1350 radunò sei de' più dotti uomini che fossero in Italia, due teologi, due filosofi e due di patria Fiorentini, e commise loro che un ampio comento scrivessero sulla Commedia di Dante, di cui al presente conservasi copia nella Biblioteca Laurenziana in Firenze (Mehus loc. cit.). Chi fossero questi comentatori, non è ben certo; ma il Mehus paragonando il comento che Jacopo dalla Lana in questo medesimo secolo scrisse su Dante, e che vedesi anche alle stampe, e le Chiose sullo

venna,

stesso poeta attribuite al Petrarca, che nella citata biblioteca si trovano, ne congettura che amendue fosser tra quelli, che vennero in tal lavoro impiegati. L'ab. de Sade però si crede ben fondato a pensare ( Mém. de Petr. t. 3. p. 515.), che il Petrarca non iscrivesse comento alcuno su Dante. Il fondamento, a cui egli si appoggia, è una lettera del Petrarca al Boccaccio, che trovasi nell'edizione delle Lettere di questo poeta, fatta in Ginevra l'anno 1601, in cui egli si duole di esser creduto invidioso della fama di Dante. Ei veramente non nomina mai questo poeta, ma, a parere dell'ab. de Sade, parla in tal modo ch'è evidente che parla di Dante. Ei dunque, rispondendo al Boccaccio che lodato avea questo poeta, gli dice ch' egli è ben giusto ch'ei si mostri grato a colui, ch'è stato la prima guida ne' suoi studi; che ben dovute sono le lodi di cui l'onora; ch'esse sono assai più pregevoli degli applausi del volgo; e che egli stesso con colui si congiunge a lodar quel poeta volgare nello stile, ma nobilissimo ne' pensieri. Quindi si duole di ciò che spargeasi, ch'ei fosse invidioso del gran nome di cui quegli godeva; dice ch' ei non l'avea veduto che una volta sola essendo fanciullo, o a dir meglio, che una volta gli era stato mostrato a dito; che quegli

medaglie in onor di esso battute, e delle statue a lui innalzate. Il Boccaccio ce lo descrive come uomo ne' suoi costumi sommamente composto, cortese e civile. Al contrario Giovanni Villani ce ne fa un carattere alquanto diverso, e io recherò qui il passo in cui ne ragiona, perchè parmi il più acconcio a darcene una giusta idea (l. 9, c. 134). «Questi fu grande letterato quasi «< in ogni scienza, tutto fosse laico; fu sommo Poeta et Philosofo et Rettorico, perfetto tanto « in dittare, et versificare, come in aringhiera parlare, nobilissimo dicitore, et in rima som" mo con più pulito et bello stile, che mai fosse «< in nostra lingua infino al suo tempo et più « innanzi. Fece in sua giovanezza el libro della « Vita nuova di amore, et poi quando fu in esilio « fece da 20 Canzoni morali et d'amore molto

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eccellenti, et infra l'altre fece tre Pistole, « l' una mandò al reggimento di Firenze, do

gliendosi del suo esilio senza colpa; l'altra « mandò all'Imperadore Arrigo, quando era allo assedio di Brescia, riprendendolo della sua «< stanza, quasi profetizando; la terza a' Cardinali Italiani, quando era la vacatione dopo la « morte di Papa Clemente, acciò che s'accor« dassero a eleggere Papa Italiano; tutte in la<< tino con alto dittato et con eccellenti senten

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