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Di tante membra scemo

Qualor miro il tuo capo, io di te stessa
L'ombra bensì, ma il corpo tuo non veggio.
E qual già Mario dell' antica oppressa
Desolata Cartago il caso estremo

E vide e pianse; al tuo abbattuto seggio
Tal io gli occhi volgendo, a gli occhi chieggio
D'amare stille ampio tributo, e grido:
O de le genti domatrice, e doma

Sol da te stessa, o Roma,

Ove la gloria, ove 'l valor fe' nido:
Se da straniero lido

Grazia verrà mai tale,

Onde all' onor primiero apra tu gli occhi, Sotto qual astro, e in quale

Secol sia, che tal sorte unqua ti tocchi ?
Così di tue sciagure

Doleami allor, che 'l dolce tempo e lieto
Mi vestia di lanugine le gote.

Ma il gran reflusso instabile inquieto
Or delle buone, or delle ree venture
Nel mar del mondo investigar chi puote?
Non lungi là dal gelido Boote

Sorse indi a poco imperiosa Stella,
Ma fausta sì, che se mentir non vuoi,
Dire a ragion tu puoi:

Antica Roma, a par di te son bella.
Cosi mai sempre quella,

Come è pur suo costume,

A te rivolga la serena fronte,

E'l nuovo artico lume

Nell' italico ciel mai non tramonte.

Dico, che a te non pria

Di se feo l'alto incomparabil dono

La gran Cristina, e in sua magion ti elesse,

Che a te tornò la maestate e 'l trono,
E in te la gloria rifiorì natía;

E le tue mura

e le tue mura istesse

Quasi che senso ogni lor sasso avesse
Parve, che a lei nel memorabil giorno
Gissero incontra, e insuperbisse il suolo,
E rispettose il volo

Fermasser l'aure de i lor voli a scorno.
Parve, che a lei d' intorno,

Nel trionfale ingresso

Il sopito valor le luci aprisse,
E'l prodigo Permesso

L'acque più pure all'arse labbra offrisse.

Trionfo mai simíle

Non vide il Tebro; e tu me 'l giuri, ed io Te 'l credo, o Roma. Sul gran carro altero In atto vidi maestoso e pio

L'augusta Donna alteramente umíle

Più, ch' altri già del vinto mondo intero,
Se stessa ornar del rifiutato impero

E del trionfo di se stessa. Io vidi
Del regio soglio al piè schiava ritrosa
Star l'eresia pensosa,

E invan fremer l'invidia, e tra i più fidi
Festosi applausi e gridi

All'alta vincitrice

Tutte inchinarsi le bell' arti ancelle,
E'l gran nome felice

Per lo cielo portar l'aure più snelle.
Dier voto allora, e voce

Ebbero in te le più bell' arti, e nuova
Colonia eresser sul Tarpeo le Muse.
E tutte i'vidi con mirabil prova
Per lei sudar le penne, e metter foce
Tutte in lei del saper l'acque confuse,

Cetra non tacque allor, nè labbro chiuse
L'Istoria; e voce in celebrar costei

Mancò alle Prose. Ma in diversi modi
Tradiro il ver le lodi;

Onde cotanto per virtù di lei,
Chiara e si grande sei;

Che d'alta fama e loda

Chiunque il pregio, viaggiando, merca,
Se a varj lidi approda,

Sol te nel mondo, e in te costei sol cerca. E quale in mezzo a' lieti

Giuochi olimpici un tempo al divin Plato
La turba il guardo ammirator converse,
Onde soli restar dall' altro lato

Cavalli e cavalier, pugili e atleti
Mirò il Teatro, e con pietà il sofferse;
Tale in mezzo alle tante e sì diverse
Tue meraviglie il peregrin non mira
Templi e palagi ed obelischi ed archi
Ma il ciglio avvien, che inarchi

Sol quando in lei pien di stupore il gira.
E quel seren, che ammira,

Tanto sua vista eccede,

Che lei, qual lampo, che abbagliando alletti, Vede a un tempo, e non vede,

E poi muto riman, se n'ode i detti.
Di sua statua reale

Nicchia se'tu ben degna, e si risplendi
Col lume suo, che oltra le vie del Sole
Della tua fama i termini distendi,

E voli tu del nome suo coll' ale.
Ma, deh, se tardi a questa bassa mole
Scese, tardi lassù torni e rivole

La grand'Alma, e l'età cangi natura.
Tardi muovansi gli anni, e tardi vegna

Morte a spiegar sua insegna;
E come già delle Trojane mura
Ebbe il Palladio cura;

Così la viva e vera

Pallade sveca di lassù discesa,
Della Romana sfera

Sia l'alto appoggio, e la fatal difesa.
Se dell' augusta Donna,

Canzon, sovente in vario stil ragiono,
Spero trovar perdono:

Tante in costei fuor di misura infuse
Grandi egregie virtù son le mie Muse.

CANZON E.

Nel più alto silenzio, allor che amico
Sonno col dolce ventilar dell' ale,
Gli occhi del mondo affaticato serra
Grave in vista, e di stirpe alta immortale
Donna m' apparve di sembiante antico,
Ma di valor non conosciuto in terra,
E disse a me: Dall' implacabil guerra,
Ch' io già sostenni, e dal crudele strazio,
Che di me fero i secoli tiranni
Respiro; e de' miei danni

O impietosito, o stanco forse, o sazio
È il destin. Ben sai tu, quai serti, è quante
Al crin ghirlande in varie guise avvolsi,
Quando uscita di Grecia, in Campidoglio
Tenni d'Augusto il soglio,

E quante poi strane sciagure accolsi
In quella età, che tutte a poco a poco
Tacquer le cetre, e roco

Si fe' ogni cigno, e del castiglio Impero
Le pompe e 'l fasto al mio cader cadero,
Raccolta di Lirici.

13

1

Caddi, e d'oscura fama in me si scorse Qualche incerto baglior, finche'l malvagio Ruinoso barbarico torrente

ין

Inondò Roma, e nel fatal naufragio
Le bell'arti periro. O qual mi corse
Giel per
ossa in mirar naufraghe e spente
Le mie glorie, il mio nome! egra e dolente
Porsi a vil ferro il piede, e in ceppi stretta
Piansi, e tra genti barbare e feroci
Barbari accenti e voci

Fui dal destino a proferir costretta,
Ma com' aspro incivil tronco selvaggio,
Se avvien, che ramo a lui gentil si unisca,
Ringentilisce, e si marita poi

A frutti e fior non suoi ;
Si l'Ausonia gentil favella prisca
S'innesto su 'I barbarico linguaggio,
E dal comun lignaggio

Nacque il dolce idioma, onde l'egregia
Tua patria illustre a gran ragion si pregia.
Così poi, che l'Imperio alto di Roma
Cadde di seggio, e del regale aspetto
E del parlar la maestà perdeo,
Itale rime io d'intrecciar diletto

Presi, e d'un tosco allôr fregiai la chioma,
D'un tosco alloro, che del lauro Acheo,
E del Romano a par crebbe, e si fea
Illustre serto all' onorate fronti.

Il san quei due, che all'Arno in riva il chiaro
Lor canto all' etra alzaro,

E'l sa chi tutti d' Ippocrene i fonti

Bevve, e cantò del pio Buglion l'imprese,
E quegli altri, il cui stil sembra, che muova
Lite all'antico, e gli s'agguagli in parte.
Ma quai veggiam le sparte

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