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Che calca imperj e scettri, e della regia
Grandezza il fasto e lo splendor dispregia?
Costei chi è, che a se fa guerra, e investe
I proprj affetti, e fa dubbiar, se cosa
Sia terrena o celeste ?

Costei di se gentil nemica e amante,
Che'l tron ripudia, e col

gran

Dio si posa?

Costei, che al mondo, al cieco mondo errante

Mostra del cielo i veri

Spinosi ardui sentieri?

Qual sarà penna, che di là dall'Alpe

Oltre ad Abila e Calpe

La porti a volo ? e qual di lei fia degna
Sfera, che poi sostegna

Il glorioso fortunato incarco,

Onde or la terra, e'l ciel dappoi fia carco? Tai cose un tempo assai minor del vero Cantò di te l'Europa, e stil non ebbe Da spiegar mai l'intero

Tuo pregio in carte; ma poi tanto in suso Alzò tua fama i vanni, e tanto crebbe, Ch'io gl'ingegni discolpo, e l'arte accuso. Pur di tentar tue lodi

Mi sforzo in varj modi,

E penso e scrivo; ma se 'l canto io scioglio, Non son qual esser soglio.

Tronco gli accenti, poi qual uom che sogna, E di parlare agogna,

Riapro il labbro, e timido e bramoso Tacer non posso, e favellar non oso. Ma sarà mai, ch'io de' toscani inchiostri Spenta miri la gloria, e che dipinto Ad ogni età non mostri

Lo splendor, che a noi vivo il Ciel diè in sorte? E bevo l' onda d' Ippocrene, e cinto

D'allori ho'l crine, e tolgo i nomi a morte?
La cetra omai vi rendo,

Misero dono, e appendo,

O Muse, il plettro a queste mura, e dico;
Dov'è 'l mio spirto antico?

Ma tu, egregio Cantor, che la sagrata
Nobil' arpa dorata

Sospendi al regio fianco, e con superni
Cantici l'opre e le memorie eterni:
Tu sostien le mie veci, alza tu grande,
Inno di laudi all' etra, e canta e scrivi;
Scrivi l'opre ammirande

Di sì gran Donna, e di, che in questa sola
Tutti sgorgaron di virtute i rivi :

Di, che a gran padre assai maggior figliuola
Nel regio tron successe,

E si l'imperio resse,

Che avanzo 'l grido, e superò la lode:
Di, che fu giusta e prode,

E come in guerra trionfo sovente,
E come braccio e mente

Fu de gl'invitti suoi campioni, e come
Vinser questi coll' armi, ella col nome.
Narra tu poi, che a superar se stessa,
E gli esempli oscurar vecchi e novelli,
Feo 'l gran rifiuto, ond' essa

Il divin culto e'l Vaticano adorna :
Narra, che sua mercè più illustri e belli
Splendono i sette colli, ove or soggiorna;
Che per lei gonfio ed ebro;

Va d'alta gloria il Tebro;

Che qualora il piè muove, o'l guardo gira, Desta virtute, e spira

Maestosa clemenza, e par, che Roma

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Dal fero popol doma

Coll'acquisto di lei gli antichi insulti
Vendichi appieno, e in vendicargli esulti.
Come ella i sacri e i più famosi allori
Pregia e nutre, non vedi? e come dona
A i cigni più canori

Voce, spirto e baldanza? Odi la fama,
Odi la fama, che di lei ragiona,

El più ne tace, e te in soccorso chiama.
Scopri tu dunque e svela

Quel vivo Sol, cui cela

Soverchio lume, e ponlo in alto, e il mostra
A i Re dell' età nostra.

Ma le mie luci di tal vista vaghe

Quando fia 'l dì, che appaghe?

Io di Febo i destrier già sprono e pungo
Con mille voti, e penne al Tempo aggiungo.

ALESSANDRO, GUIDI

Nacque in Pavia nel 1650. Giovane ancora fu accolto ed onorato in Parma dal Duca Ranuccio II. Quivi pubblicò con uno stile conforme al gusto di que' tempi alcune sue poesie liriche, e un dramma intitolato Amalasunta in Italia. Ma non appena passò nel 1685. alla corte della grande Cristina, che unitosi con altri valorosi poeti cospirò alla felice rivoluzione del gusto nella volgar poesia. Divenne quindi uno de' più liberi imitatori di Pindaro; sicchè osò persino di rompere ogni legame nel determinato numero dei versi, e nella collocazione delle rime in ciascheduna strofe delle Canzoni. Le sue Odi sono realmente piene di forza e di entusiasmo, Scrisse anche l'Endimiodramma pastorale, in cui l'istessa Cristina non isdegnò d'inserire alcuni suoi versi. Ebbe pure qualche maneggio ne' politici affari; ed incumbenzato dalla sua patria a trattare pressoil Principe Eugenio di Savoja la diminuzione de' pubblici aggravj, riesci felicemente nella sua commissione. Mori in Frascati sorpreso da un colpo d' apoplesia ai 12. di giugno del 1712. Dicesi che la sua morte provenne da un' af flizione, onde fu vivamente preso a cagione di alcuni_errori di stampa, chi egli scoprt in una sua traduzione dell' omelie di Clemente XI. mentre si recava a Castel Gandolfo per offerirne una copia a quel Pontefice. V. Monsig Fabroni. Vit. Italor. dec. 3. p. 223. ec.

ne,

SONETTO.

Eran le Dee del mar liete e gioconde
Intorno al pin del giovanetto Ibero,
E rider si vedean le vie profonde
Sotto la prora del bel legno altero.
Chi sotto l'elmo l'auree chiome bionde
Lodava, e chi il real ciglio guerriero:
Solo Proteo non sorse allor da l' onde
Che de' fati scorgea aspro pensiero.
E ben tosto apparir d' Iberia i danni,
E sembianza cangiar l'onde tranquille,
Visto troncar da morte i suoi begli anni.
Sentiron di pietade alte faville

ין

Le vie del mare, e ne' materni affanni Teti tornò, che rammentossi Achille.

CANZON E.

Io, mercè de le figlie alme di Giove,

Non d'armento, o di gregge

Son ne' campi d'Arcadia umil custode:
Cultor son io de l' altrui bella lode,
Cui levo in alto co' sonori versi ;
Ed ho cento destrieri

Su la riva d'Alfeo,

Tutti d'eterne penne armati il dorso Che certo varcherian l'immenso corso, Che fan per l'alta mole

I cavalli del Sole.

Forse i pastor de le straniere selve

A mia possanza negheranno fede;
Nè crederan, che le immortali Ninfe

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