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DANTE ALIGHIERI

Nacque in Firenze nel 1265. di Alighiero degli Alighieri, e di Bella. Fu detto Durante, e poscia per vezzo Dante. Ebbe per maestro Brunetto Latini. Fervido d'ingegno volle ancora servire la patria coll armi. Fu egli pure esiliato l'anno 1302. perchè del partito de Bianchi. Negli ultimi suoi giorni fu accolto da Gui do Novello da Polenta in Ravenna, dove esule mori nel 1321. Fu grande letterato in ogni genere di scienze, ed è uno de' Padri dell' ita liana poesia. Il carattere di sue rime è la precisione, ed una fiera robustezza; ma è dili cato ancora e soave, dove ha voluto esserlo. V, la vita, che ne scrisse il Tiraboschi, premessa al primo Vol. della Divina Commedia della Col lezione de' Classici.

SONET TO.

Tanto gentile e tanto onesta pare

La Donna mia, quand' ella altrui saluta,
Ch' ogni lingua divien tremando muta,
E gli occhi non ardiscon di guardare.
Ella sen va, sentendosi laudare,

Benignamente d'umiltà vestuta,

E

par, che sia una cosa venuta

Di Cielo in Terra a miracol mostrare. Mostrasi si piacente a chi la mira,

Che dà per gli occhi una dolcezza al core, Che intender non la può chi non la prova. E par, che de la sua labbia si mova Uno spirto soave, e pien d'Amore, Che va dicendo a l'anima: sospira,

CANZONE.

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Io mi son pargoletta bella e nova,
E son venuta per mostrarmi a vui
De le bellezze, e loco donde io fui.
Io fui del Cielo e tornerovvi ancora,
Per dar de la mia luce altrui diletto;
E chi mi vede, e non se ne innamora,
D'Amor non averà mai intelletto;
Chè non gli fu piacere alcun disdetto,
Quando Natura mi chiese a colui
Che volle, Donne, accompagnarmi a vui.
Ciascuna stella ne gli occhi mi piove
De la sua luce e de la sua virtute:
Le mie bellezze sono al mondo nove,
Perocchè di lassù mi son venute;
Le quai non posson esser conosciute,
Se non per conoscenza d' Uomo, in cui
Amor si metta per piacere altrui.
Queste parole si leggon nel viso

D' un'Angioletta, che ci è apparita;
Ond' io, che per campar la mirai fiso,
Ne sono a rischio di perder la vita;
Però ch' io ricevetti tal ferita

Da un, ch'io vidi dentro a gli occhi sui
Ch'io vo piangendo, e non m'acquetai pui.

CINO DA PISTOJA

Di lui fa Dante onorevole e frequente menzione. Cino però sopravvisse a Dante, nella cui morte compose un Sonetto, che conservasi manoscritto nella Biblioteca di S. Marco in Venezia.

SONETT O.

Tanto mi salva il dolce salutare,

Che vien da quella, ch'è somma salute; In cui le grazie son tutte compiute : Con lei va Amor, che con lei nato pare. E fa rinnovellar la terra e'l mare, E rallegrar lo Ciel, la sua virtute. Giammai non fur tal novità vedute, Quali per lei ci face Dio mostrare. Quando va fuora adorna, par che il mondo Sia tutto pien di spiriti d'amore,

Si che ogni gentil cor divien giocondo. E lo villan domanda: Ove m'ascondo? Per tema di morir vuol fuggir fuore: Che abbassi gli occhi l'Uomo, allor rispondo.

CANZONE.

Quando Amor gli occhi rilucenti e belli, Che han d'alto foco la sembianza vera, Volge ne' miei, sì dentro arder mi fanno Che virtù d'Amor vengo un di quelli Spirti, che son nella celeste sfera,

per

Ch' amor e gioja egualmente in lor anno. Poi per mio grave danno,

S' un punto sto, che fisso non li miri, Lagriman gli occhi, e 'l cor tragge sospiri. Così veggio, che in se discorde tene

Questa troppo mia dolce, e amara vita, Che niun tempo nel Ciel trovasi e in terra, Ma di gran lunga in me crescon le pene; Perchè cherendo ad alta voce aïta,

Gli occhi, altrove mirando, mi fan guerra: Or se pietà si serra

Nel vostro cor, fate, che ognor contempre Il bel guardo, che in Ciel mi terrà sempre. Sempre non già, poscia che nol consente Natura, ch ordinato ha, che le notti Legati sian, non già per mio riposo, Perciocchè allor sta lo mio cor dolente Nè sono a l'alma i suoi pianti interrotti Del duol, ch'ho per fin qui tenuto ascoso : Deh se non v'è nojoso

Chi v'ama, fate almen, perch' ei non mora, Parte li miri de la notte ancora. Non è chi immaginar, non che dir pensi L'incredibil piacer, Donna, ch' io piglio Del lampeggiar de le due chiare stelle, Da cui legati ed abbagliati i sensi, Prende il mio cor un volontario esiglio, E vola al Ciel tra l'altre anime belle; Indi di poi lo svelle

La Luce vostra, ch'ogni luce eccede, Fuor di quella di quel, che tutto vede, Ben lo so io, che il Sol tanto giammai Non illustrò col suo vivo splendore L'aer, quando che più di nebbia è pieno, Quanto i vostri celesti e santi rai,

Vedendo avvolto in tenebre il mio core,
Immantenente fer chiaro e sereno;
E del carcer terreno

Sollevandol talor, nel dolce viso
Gusto molto dei ben del Paradiso.
Or perchè non volete più, ch' io miri
Gli occhi leggiadri, u' con Amor già fui,
E privar lo mio cor di tanta gioja?
Di questo converrà, che Amor s'adiri,
Che un core in se, per vivere in altrui
Morto, non vuol, ch' un' altra volta moja.
Or se prendete a noja

Lo mio Amor, occhi d'Amor rubelli,
Foste per comun ben stati men belli.
Agli occhi de la forte mia nemica,
Fa, Canzon, che tu dica,

Poichè veder voi stessi non potete,
Vedete in altri almen quel, che voi sete.

FRANCESCO PETRARCA

Nacque nel 1304. in Arezzo, dove eransi ritirati esuli da Firenze i suoi genitori. Passò la sua fanciullezza sulle sponde del Rodano. In Carpentras piccola città vicina ad Avignone attese alle umane lettere, e alla dialettica; ed in Montpellier, e poscia a Bologna al Diritto civile. Il padre, che voleva formarne un solenne dottore, gittò un giorno al fuoco tutti gli Oratori e Poeti, che trovati avea nella camera del figlio. Pianse questi amaramente; ed il padre mossone a compassione trasse dalle fiamme Virgilio, e la Rettorica di Cicerone, ed a lui sorridendo disse: Tienti questi per sollevarti qualche rara volta leggendoli: Tor

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