ANGELO DI COSTANZO D'illustre famiglia Napoletana, e nato verso il 1507. Scrisse la storia del Regno di Napoli; ma fu assai più celebre per le sue Rime. In esse cominciò a staccarsi dalla maniera petrarchesca, assecondando cosi il proprio genio, e tentando una nuova via. I suoi Sonetti sono pieni di leggiadria e di gravità ad un tempo, e belli riescono e nuovi specialmente nelle chiuse. Il Crescimbeni li paragona perciò alla rosa reina de' fiori, in cui egualmente concorrono la nobiltà ed il brio, la grazia e la maestà. Visse oltre il 1590. Di lui scrisse diffusamente la vita Giambernardino Tafuri. SONET TO. Italia tutta, e ciascun' altra parte Prima, che in parte il suo venen distingua, SONETT O. S'amate, almo mio Sol, ch' io canti o scriva Nel troppo lume suo viene a celarvi, Sì che s' io tento gli occhi al volto alzarvi, Sento offuscar la mia virtù visiva. Fate qual fece il portator del giorno, Che per lasciar il suo figlio appressarsi Depose i raggi, di che ha il capo adorno. Ch' altro così per me non può narrarsi, Se non ch' io vidi ad un bel viso intorno Lampi onde restai cieco, e foco ond' arsi. SONETT O. Quella cetra gentil, che in su la riva E le grand' opre, che in esilio feo SONET TO. Mentre a mirar la vera ed infinita Vostra beltà, ch'a l'altre il pregio ha tolto, Tenea cogli occhi ogni pensier rivolto, E sol indi traea salute e vita; Con l'alma in tal piacer tutta invaghita Contemplar non potea quel, che più molto È da stimar; al vago, al divin volto L'alta prudenza, ed onestate unita. Or rimaso al partir de' vostri rai Cieco di fuore, aperto l'occhio interno Veggio, ch'è il men di voi quel, ch' io mirai: E si leggiadra dentro vi discerno, Ch' ardisco dir, che non uscì giammai CANZONE. Poichè di sì profonda aspra ferita Il duol inusitato M' have offesa la mente e l'intelletto; Esprimer del cor lasso alcun concetto; Cura di me; nè al dipartir di quella Voi, Muse, abbandonato ancor m'avete, Mise dei tempi suoi le più bell' alme; Ove alla schiera amica Dispensa il Re del ciel corone e palme: Teco, ch' io ti produssi, e generai, ; Ove or ti specchi, gira i lumi ardenti E me risguarda, ed odi i miei lamenti. Figlio, io per me non so che pianger pria; La bellezza alta e rara Ch' ha teco estinta invidiosa morte; O la fe, la bontà, la cortesia Si nota al mondo e chiara, Che nacquer teco, e poi teco son morte Che se il vederti il cor m' empiea di gioja, Non men giocondi frutti io raccogliea Dalle tante virtù che in te vedea. Che non finito il sestodecim' anno, Di prudenza atto alcuno Non fu giammai che in te non risplendesse. Quanto valor natura allor t' impresse. Della modestia tua lagnare unquanco; Di veritade e di giustizia amico, Ogn' altro, che la palma a te conviensi ; I tuoi pensieri ad ubbidirmi intensi ; Così tenevi i sensi Svegliati a prevenire i desir miei; Dir ch'abbi mai per studio, o per obblio Fatto un sol atto contra il voler mio. Dunque qual antro oscuro o qual caverna Fia conforme soggiorno A me, di tanto ben spogliato e privo, Di lasciarmi veder senza te vivo? O quando il fuggitivo Tempo, che l'ale al volo ha sì gagliarde, A consumar questa caduca scorza, Se voi, sacre sorelle, Vedete ben come la pena atroce M'ha già tolta la voce, Ne più dir posso; fate in terra fede, CANZONE. Tante bellezze il Cielo ha in te cosparte, Nova Ciprigna. Raccolta di Lirici. 6 |