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Letta la spaventosa iscrizione sopra la porta

nate le cose, nè cessando di riconoscer mai sem

dell Inferno, e confortato dall' amorosa sua gui-pre nella timidità di lui la causa della esaltada, s' introduce finalmente il poeta con essa nel caliginoso vestibolo. Là miste alla schiera degli Angeli che ne ribelli a Dio si mostrarono ne fedeli, ma neutri si stettero, nel che puoi ravvisar gli egoisti, gli sono additate l'anime dei poltroni. Fra queste riconosce l'ombra di San Pier Celestino che per l'arti di Bonifazio VIII rinunziò la sedia Romana. Ei prepara così l'animo del lettore all odio immenso di 'che non cessa caricare Bonifazio stesso, quantunque volte gli cade in acconcio: nè vogliam noi, con poca speranza di riuscita, impegnarci 1 a provare che d'altra persona, non di chi fu innalzato agli onori de' Santi, irriverentemente il poeta ragioni. La maniera frodolenta, onde | Bonifazio pervenne al Papato, è cosa notissima; notissima è la rinunzia di Celestino che ingannato da quello rifuggissi nell' eremo, quivi, ridotto in carcere, cessò di vivere ; e si sa del pari che nel 1313 fu ascritto da Clemente | nell' albo de' Santi. Ora in quell' epoca l' Inferno di Dante si leggea per Italia; nè dovette il poeta curarsi di rettificarlo dipoi sul proposite del nuovo Beato, non potendogli condonare daver lasciato il governo della Chiesa nel temche tutti speravano di veder per esso riordi

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Vidio scritte al sommo d'una porta:
Perch'io: Maestro, il senso lor m'è duro (3).

zione di Bonifazio. D'altronde questa timidità se avesse avuto pur luogo nell' animo di Celestino così come Dante ve la suppose, non sarebbe già stata una colpa nel santo Pontefice: chè anco la santità può esser ingannata dai furbi. Tuttavia noi crediamo che profondissima umiltà cristiana gli dettasse invece il pensiero dell' abdicazione; nè vogliamo lodare il poeta che pose tra la ciurma dei vili chi regna in cielo co' veri magnanimi: ma qual è lo spirito di parte che non si accieca? Per questo modo adunque, ravvisato in Celestino colui che fece per viltate il gran rifiuto, descrive Dante il supplizio di quegli sciaurati: dopo di che, seguitando il cammino, giunge alle rive d' Acheronte, ove, raccolte dal tristo nocchiero, passan l' anime all' altra sponda. Ma, ricusando Caronte di riceverlo nella sua barca, immagina, siccome ne spiegano il Magalotti e il Biagioli, che scenda un messo dal cielo per tragittarlo. L' Angelo è preceduto da un forte terremuoto, e da un vento impetuoso; ma non dovendo il poeta scopertamente vederlo, si accende sugli occhi di lui tal luce che, ingombratolo di stupore, lo atterra com' uomo sorpreso dal sonno .

Ed egli a me, come persona accorta:
Qui si convien lasciare ogni sospetto;
Ogni viltà convien che qui sia morta.
Noi sem venuti al luogo ov' io t'ho detto
Che vederai le genti dolorose,

Ch' hanno perduto il ben dello intelletto (4) ·
E poichè la sua mano alla mia pose,
Con lieto volto, ond' io mi confortai,
Mi mise dentro alle segrete cose.
Quivi sospiri, pianti ed alti guai
Risonavan per l'aer senza stelle,
Perch'io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,

Parole di dolore, accenti d'ira, Voci alte, e fioche, e suon di man con elle, Facevano un tumulto, il qual s'aggira

Sempre in quell' aria senza tempo tinta (5), Come la rena quando il turbo spira. Ed io, che avea d'error la testa cinta (6), Dissi: Maestro, che è quel ch'i' odo? E che gent'è, che par nel duol si vinta? Ed egli a me: Questo misero modo

Tengon l'anime triste di coloro,

Che visser senza infamia e senza lodo (7). Mischiate sono a quel cattivo coro

Degli angeli, che non furon ribelli, Ne fur fedeli a Dio, ma per sè foro. Cacciarli i ciel per non esser men belli: Ne lo profondo inferno gli riceve,

Che alcuna (8) gloria i rei avrebber d'elli. Ed io: Maestro, che è tanto greve

A lor, che lamentar gli fa si forte? Rispose: Dicerolti molto breve. Questi non hanno speranza di morte,

E la lor cieca vita è tanto bassa, Che invidiosi son d'ogni altra sorte. Fama di loro il mondo esser non lassa, Misericordia e giustizia gli sdegna (9): Non ragioniam di lor, ma guarda e passa. Ed io, che riguardai, vidi un' insegna,

Che girando correva tanto ratta,
Che d'ogni posa mi pareva indegna (10):
E dietro le venia si lunga tratta

Di gente, ch'io non averei creduto,
Che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io v' ebbi alcun riconosciuto,
Guardai e vidi l'ombra di colui
Che fece per viltate il gran rifiuto.
Incontanente intesi, e certo fui,

Che quest' era la setta dei cattivi,
A Dio spiacenti ed ai nemici sui (11).
Questi sciaurati, che mai non fur vivi (12),
Erano ignudi e stimolati molto

Da mosconi e da vespe ch'erano ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,

Che mischiato di lagrime, ai lor piedi,
Da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi che a riguardare oltre mi diedi,

Vidi gente alla riva d'un gran fiume:
Perch'io dissi: Maestro, or mi concedi,
Ch'io sappia quali sono e qual costume
Le fa parer di trapassar si pronte,
Com'io discerno per lo fioco lume.
Ed egli a me: le cose ti fien conte,

Quando noi fermeremo i nostri passi
Sulla trista riviera d'Acheronte.
Allor con gli occhi vergognosi e bassi,

Temendo no 'l mio dir gli fusse grave, Infino al fiume di parlar mi trassi (13). Ed ecco verso noi venir per nave

Un vecchio bianco per antico pelo,
Gridando: Guai a voi anime prave:
Non isperate mai veder lo cielo ;

Io vegno per menarvi all' altra riva,
Nelle tenebre eterne, in caldo e in gelo:

E tu che se' costi, anima viva,

Partiti da cotesti che son morti.

Ma poi ch' ei vide, ch'io non mi partiva,

Disse: Per altre vie, per altri porti

Verrai a piaggia, non qui, per passare: Più lieve legno convien che ti porti (14). E il duca a lui: Caron, non ti crucciare ; Vuolsi così colà, dove si puote Ciò che si vuole, e più non dimandare. Quinci fur quete le lanose gote

Al nocchier della livida palude, Che intorno agli occhi avea di fiamme rote. Ma quell'anime, ch'eran lasse e nude, Cangiar colore e dibattero i denti, Ratto che inteser le parole crude. Bestemmiavano Iddio, e i lor parenti, L'umana specie, il luogo, il tempo, e il seme Di lor semenza e di lor nascimenti. Poi si ritrasser tutte quante insieme,

Forte piangendo, alla riva malvagia, Che attende ciascun uom che Dio non teme. Caron dimonio con occhi di bragia

Loro accennando, tutte le raccoglie; Batte col remo qualunque s'adagia (15). Come d'Autunno si levan le foglie,

L'una appresso dell' altra, infin che il ramo Rende alla terra tutte le sue spoglie; Similemente il mal seme d' Adamo:

Gittansi di quel lito ad una ad una, Per cenni, come augel per suo richiamo (16). Cosi sen vanno su per l'onda bruna, Ed avanti che sian di là discese,

Anche di qua nova schiera s'aduna. Figliuol mio, disse il Maestro cortese,

Quelli che muoion nell' ira di Dio
Tutti convegnon qui d'ogni paese:
E pronti sono al trapassar del rio,
Che la divina giustizia li sprona
Sì che la tema si volge in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
E però se Caron di te si lagna,
Ben puoi saper omai che il suo dir suona (17).
Finito questo, la buia campagna

Tremò si forte, che dello spavento
La mente (18) di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,

Che baleno una luce vermiglia,
La qual mi vinse ciascun sentimento:
E caddi, come l'uom cui sonno piglia.

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buone ne per infami azioni.

(13) Mi astenni.

(14) Se tragittar vuoi, trovati altri passaggi ed altro legno; che quinci per certo non verrai. (15) Si trattiene.

(16) Richiamo è qualunque cenno usato dal eacciatore per allettar gli uccelli.

(17) Caronte non volle tragittarti perchè nella sua barca non entrano che i malvagi. (18) La memoria.

GANTO QUARTO

ARGOMENTO.

Al rimbombo di lamentevoli grida si desta il | sospensione. Qui non è verun tormento este

del

riore, veruna pena di senso ; ma solo il ram-
marico d'esser privi della beatifica visione,
o, ciò che torna lo stesso,
la sola pena
danno. Tutte queste cose manifesta Virgilio
al caro suo alunno, da cui parimente interro-
gato se quindi uscì mai persona, siccome la
Fede c' insegna, gli risponde che tratti per
certo ne furono dal Vincitor della morte i
giusti, e gli antichi Patriarchi della Legge
Mosaica, che primi salirono a riempire i seg-

poeta dal suo smarrimento, e trovasi già pasI sato all altra riva d' Acheronte, d' onde con Virgilio discende nel primo circolar ripiano che cinge interne l'abisso. Dobbiam qui notare che, a formarsi giustissima idea del Dantesco Inferno, basta figurarsi soltanto divisa in nove altissimi e larghissimi ripiani circolari, ognuno disposto siccome i gradi negli antichi anfiteatri, tutta l'infernal discesa: e sopra i medesimi ripiani comprendervi repartite le anime dei dannati, secondo lor colpe divergi del cielo. Frattanto, procedendo nel camse. Nel primo cerchio adunque son raccolti g? innocenti, morti prima e dopo la venuta del Messia, senza conoscere la vera religione, • senza la grazia del Battesimo; non meno che le Ombre degli antichi eroi e de' Saggi, per cui si occupa una sede luminosa e distinta. E questo in sostanza il Limbo, nel quale, dilungandosi dall' opinione teologica, immagina francamente il poeta serbarsi le anime in una condizione non avvivata da speranza assoluta, ma nemmen rintuzzata da contraria certezza; il che costituisce lo stato di vera

Ruppemi

Luppemi l'alto sonno nella testa

Un greve tuono sì, ch'io mi riscossi,
Come persona che per forza è desta:
E Pocchio riposato intorno mossi,
Dritto levato, e fiso riguardai
Per conoscer lo loco dov'io fossi.
Vero è che in su la proda mi trovai
Della valle d'abisso dolorosa,

Che tuono (1) accoglie d'infiniti guai.
Oscura, profonda era, e nebulosa,

Tanto che, per ficcar lo viso al fondo (2), la non vi discernea veruna cosa. Or discendiam quaggiù nel cieco mondo; lacomincio il poeta tutto smorto: lo saro primo, e tu sarai secondo. Ed in, che del color mi fui accorto, Dissi: come verrò, se tu paventi Che suoli al mio dubbiare esser conforto? El eli a me: L'angoscia delle genti, quaggiù, nel viso mi dipinge Quella pietà che tu per tema senti (3).

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mino, si scopre agli occhi del poeta una luce, e poco dopo le Ombre d' Omero, d' Orazio, d' Ovidio, e di Lucano, che muovonsi a ricever l'Ombra del buon Virgilio, e, facendole onore, l'accolgono nella loro schiera. L'istesso Dante vien dichiarato del bel numer uno da que' Saggi, e introdotto per essi nel castello, dov' hanno stanza gl' illustri spiriti, molti de' quali con entusiasmo ricorda. Finalmente, dividendosi dall' onorata compagnia, s'incammina per discendere nel secondo gi

rone.

Andiam, chè la via lunga ne sospinge:
Così si mise, e così mi fe' entrare
Nel primo cerchio che l'abisso cinge.
Quivi, secondo che per ascoltare (4),
Non avea pianto, ma che (5) di sospiri,
Che l'aura eterna facevan tremare :

E ciò avvenia di duol senza martiri,
Ch' avean le turbe, ch' eran molte e grandi,
E d'infanti e di femmine e di viri (6).
Lo buon Maestro a me: Tu non dimandi
Che spiriti son questi che tu vedi ?

Or vo' che sappi, innanzi che più andi (7),
Ch' ei non peccaro: e s'elli hanno mercedi (8),
Non basta, perch' ei non ebber battesmo,
Ch'è porta della fede che tu credi:

E se furon dinanzi al Cristianesmo,
Non adorar debitamente Dio:

E di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, e non per altro rio (9),
Semo perduti, e sol di tanto offesi,
Che senza speme vivemo in disio.

Gran duol mi prese al cor quando lo intesi,
Perocchè gente di molto valore
Conobbi, che in quel limbo eran sospesi.
Dimmi, Maestro mio, dimmi, Signore,
Comincia' io, per voler esser certo

Di quella fede che vince ogni errore:
Uscinne mai alcuno, o per suo merto,
O per altrui, che poi fosse beato?

E quei, che intese il mio parlar coverto (10), Rispose: lo era nuovo in questo stato (11), Quando ci vidi venire un possente Con segno di vittoria incoronato. Trasseci l'ombra del primo parente, D'Abel suo figlio, e quella di Noè Di Moise legista e ubbidiente (12). Abraam patriarca, e David re,

Israel (13) con suo padre, e co' suoi nati, E con Rachele, per cui tanto fe' (14), Ed altri molti; e fecegli beati:

E vo' che sappi, che, dinanzi ad essi,
Spiriti umani non eran salvati.
Non lasciavam d'andar perch' ei dicessi,
Ma passavam la selva tuttavia,
La selva dico di spiriti spessi.
Non era lungi ancor la nostra via

ᎠᎥ qua dal sommo (15); quand' io vidi un foco,
Ch'emisperio di tenebre vincia (16).
Di lungi v'eravamo ancora un poco;

Ma non si ch' io non discernessi in parte, Che orrevol gente possedea quel loco. O tu, che onori ogni scienza ed arte, Questi chi son ch' hanno cotanta orranza Che dal modo degli altri li diparte? E quegli a me : L'onrata nominanza, Che di lor suona su nella tua vita, Grazia acquista nel ciel che sì gli avanza. Intanto voce fu per me udita:

Onorate l'altissimo poeta:

L'ombra sua torna, ch' era dipartita.
Poichè la voce fu restata e queta,
Vidi quattro grand' ombre a noi venire;
Sembianza avevan ne trista ne lieta.
Lo buon Maestro cominciò a dire:

Mira colui con quella spada in mano,
Che vien dinanzi ai tre si come sire.

Quegli è Omero poeta sovrano,

L'altro è Orazio satiro (17) che viene, Ovidio è il terzo, e l'ultimo è Lucano. Perocche ciascun meco si conviene

Nel nome (18), che sono la voce sola;
Fannomi onore, e di ciò fanno bene.
Così vidi adunar la bella scuola

Di quel Signor (19) dell' altissimo canto,
Che sovra gli altri com' aquila vola.
Da ch' ebber ragionato insieme alquanto,
Volsersi a me con salutevol cenno:
E il mio Maestro sorrise di tanto:
E più d'onore ancora assai mi fenno,
Ch'essi mi fecer della loro schiera,
Si ch' io fui sesto tra cotanto senno.
Cosi n' andammo infino alla lumiera,
Parlando cose che il tacere è bello,
Si com'era il parlar colà dov' era (20).
Venimmo al piè d'un nobile castello,
Sette volte cerchiato d' alte mura,
Difeso intorno da un bel fiumicello.

Questo passammo come terra dura:

Per sette porte intrai con questi savi; Giugnemmo in prato di fresca verdura. Genti v'eran con occhi tardi e gravi,

Di grande autorità ne' lor sembianti: Parlavan rado, con voci soavi. Traemmoci così dall' un de' canti

In luogo aperto luminoso ed alto, Si che veder si potean tutti quanti. Colà diritto, sopra il verde smalto,

Mi fur mostrati gli spiriti magni,

Che di vederli in me stesso n'esalto.
Io vidi Elettra con molti compagni (21),
Tra quai conobbi ed Ettore ed Enca,
Cesare armato con gli occhi grifagni (22).
Vidi Cammilla e la Pentesilea (23)

Dall' altra parte, e vidi il re Latino,
Che con Lavinia sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che caccio Tarquino,
Lucrezia, Julia, Marzia e Corniglia,
E solo in parte vidi il Saladino (24).
Poi che innalzai un poco più le ciglia,
Vidi il Maestro di color che sanno,
Seder tra filosofica famiglia (25).
Tutti l'ammiran, tutti onor gli fanno.
Quivi vid' io e Socrate e Platone,

Che innanzi agli altri più presso gli stanno. Democrito, che il mondo a caso pone (26), Diogenes, Anassagora, e Tale (27), Empedocles, Eraclito, e Zenone:

E vidi il buono accoglitor del quale (28),
Dioscoride dico: e vidi Orfeo,
Tullio, e Lino, e Seneca morale:
Euclide geometra, e Tolommeo,
Ippocrate, Avicenna, e Galieno (29),
Averrois (30) che il gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti appieno,

Perocchè si mi caccia il lungo tema,
Che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in duo si scema (31):
Per altra via mi mena il savio duca,
Fuor della queta, nell'aura che trema;
E vengo in parte, ove non è che luca (32).

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Giunge il poeta nel secondo cerchio d' In| ferno, sull ingresso del quale trova Minosse, giudice inesorabile de' peccatori; e narra la forma del tremendo giudizio. Egli è qui notare coll' esimio Scolari, non essere il Minosse dell' Alighieri, in quanto al carattere, quell' istesso degli antichi Mitologisti. Sapea Dante che costui, figlio di Giove e f Europa, regnò in Creta famoso per l'atroce vendetta della morte d' Androgeo, e per molti altri ingiusti fatti e crudeli. Però lo pese nell Inferno, e, invece di rappresentarlo come giudice dignitoso e tranquillo, ne fece un orribil mostro, incaricato dalla dina Giustizia di ordinare le pene proportenate ai delitti. Dinanzi a lui pertanto si ristanno ad una ad una le anime, costret le a confessare i lor falli; egli destina loro gastigo; gira la coda intorno al ventre, quantunque gradi vuole che giù sian messe; e a questo segno del suo comando son preci-gio di molto spirito, e di leggiadrissimo aspetpatate nel baratro. Or da sì fiero ministro esvendo ammonito il poeta come guardar debba

nella guisa che oltre s'avanzi, e camminando per l'oscuro girone, vede tormentati da furiosissimi venti che li menano in volta, i miseri carnali, sotto un cielo tenebroso e maligno. Ma ben conoscendo quanto sia l'uomo soggetto al potere del senso, e quanto forte quella passione, da cui nè gl' istessi sapienti nè gli eroi si guardarono, parla colle voci della compassione e del più tenero affetto. Talche, ricordati cinque o sei personaggi famosi che quivi mostrati gli furono, e tacendo degli altri, termina colla narrazione del pietoso fatto di Francesca da Rimino; e doloroso della di lei trista ventura, cade tramortito. Era Francesca giovine e bellissima figlia di Guido da Polenta, signor di Ravenna, che diedela in moglie a Gianciotto, o Lanciotto, figlio di Malatesta signor di Rimino, generoso cavaliere, ma deforme della persona. Per lo che innamoratasi di Paolo suo cognato, personag

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to, fu sorpresa dal marito in sul fatto, ed entrambi d'un colpo trafitti.

Vede qual loco d'inferno è da essa:
Ciguesi colla coda tante volte,
Quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
Vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
Dicono ed odono, e poi son giù volte.
O tu, che vieni al doloroso ospizio,
Disse Minos a me, quando mi vide,
Lasciando l'atto di cotanto ufizio,

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