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mune, che egli però non chiama nè toscana, nè siciliana, ma italiana. In questo concetto io riconosco l'Alighieri; perchè, come in Italia voleva unità di forza pubblica e di governo (e questo egli espose nel suo Trattato De Monarchia), così voleva negl' italiani scrittori unità di linguaggio. Dante, che volea una nazione (dice il Foscolo) volle fondare in anticipazione una lingua nazionale. Posto adunque il principio, che nessuno fra i varii dialetti d'Italia era degno di formare il volgare illustre, e che questo appariva essere in ciascuna città e in niuna riposare, Dante o credè contraddittorio il dare al dialetto toscano il primato, o questo primato in esso dialetto non ravvisò, o per fini suoi particolari ravvisare non volle. E veramente, se il dialetto toscano, sia per le opere di tanti eccellenti scrittori che furon toscani, sia pel concorso di favorevoli contingenze, andò di mano in mano ripulendosi e perfezionandosi fino al punto d'avvicinare e quasi raggiungere la lingua scritta, può egli dirsi che tale, cioè così pulito e perfetto, fosse nel 1300 ?

« Tutte le lingue, dice il conte Balbo,' trassero senza dubbio » l'origine dai dialetti variamente parlati in più regioni della na>> zione medesima, e mantennero tale indeterminatezza e varietà fin» chè uno di quelli non diventò regnante, o almeno principale. Ma » una gran differenza vi è tra le nazioni che hanno un centro di go» verno e coltura, e quelle che no. Nelle prime la città, dov'è il cen» tro, diventa sede quasi unica, e rimane fonte perenne della lingua, >> tanto che se una parte di essa città, come la corte o il pubblico parlamento, vi diventi principale, in essa parte si restringe natu>> ralmente l'autorità della lingua. Così avvenne della lingua latina regolata in Roma dalla urbanità, cioè dal costume di essa città; » così poi delle lingue moderne, spagnuola, francese ed inglese. Al» l'incontro nelle nazioni senza centro diventa bensì principale nella lingua un dialetto (imperciocchè è impossibile che tutti vi contri» buiscano per parti uguali), ma il principato di esso, non aiutato dalla centralità delle istituzioni civili, rimane di necessità meno

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» certo fin da principio, e disputato poi continuamente. Tale fu il caso della Grecia antica, tale quello dell'Italia moderna; che in ciò,

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1 Vita di Dante, vol. II, cap. V.

» come in tante altre cose, la varietà de' nostri destini ci fece sof

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frire, tra antichi e nuovi, tutti gli sperimenti, ci fece dare al » mondo tutti gli esempi. Che il dialetto fiorentino non fosse il pri>> mo scritto nè in poesia, nè in prosa, quando due fuochi della ci» viltà italiana erano la corte siciliana di Federigo II e lo Studio » di Bologna, è già noto: noto è pure come passasse tal civiltà a Firenze, come vi si facesse più progressiva, e come Dante fosse figliuolo non unico, non primogenito, ma principalissimo di tal ci» viltà. Che fin d'allora i Toscani vantassero il loro volgare come il primo della lingua italiana, vedesi dal cap. XIII, lib. I, del Vol» gare Eloquio. Naturalmente crebbe tal vanto di primato dopo » Dante, Petrarca, Boccaccio e parecchi altri, per oltre a due secoli » che Firenze rimase pur prima della civiltà italiana. Cadutane essa poi, per qualunque ragione, volle il principato di lei volgersi in >> tirannia; misera e minutissima tirannia di parole, che su allora rigettata con proteste di fatti e ricerche di diritti, come succede >> a tutte le tirannie. Ma il negare l'esistenza di quel principato, >> parmi a un tempo negazione di fatti, solenne ingratitudine a'no»stri migliori, ed ignoranza dei veri interessi della lingua, la quale » non si può mantenere viva e bella in niun luogo, come in quelli » ov'è universalmente e volgarmente parlata.

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» Errò egli dunque Dante non riconoscendo il principato, preteso » da' suoi contemporanei, del proprio dialetto? Certo sì, a parer mio, >> ma potè esser indotto in errore dalla novità di tal fatto, non uni» versalmente riconosciuto se non appunto dopo di lui e per effetto » di lui; e forse da quella sua natura larga e per così dire ecletti» ca, che gli faceva abbracciare tutte le scienze, scrivere in tutti gli stili, accettare tutti i dialetti, e raccogliere da questi ed anche dalle lingue straniere le parole che gli venivano in acconcio..... Nè è me>> stieri così d' apporre a Dante il ristretto e vil pensiero di voler per

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>> vendetta torre il vanto della lingua alla propria città. Non sogliono

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gl' irosi essere vendicativi; e chi si sfoga in parole alte ed aperte, » non si vendica poi con altre coperte ed indirette. Il fatto sta che » questo scritto, citato da alcuni qual frutto dell'ira di Dante, è as>> solutamente puro d'ingiurie a Firenze, sia che la disdegnosa ma >> gentile anima di lui vedesse doversene astenere qui, dove dava

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giudicio contrario ad essa in un di lei vanto, sia perchè questo » come il Convito, furono scritti in un tempo di maggior mansue>>tudine..... Certo non sono di animo ruminante vendetta le espres>> sioni seguenti, con che egli si scusa di non poter far la lingua fio>> rentina la più antica del mondo, e Firenze la più nobile città: Ma » noi a cui il mondo è patria sì come a' pesci il mare, quantun» que abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti ch'avessimo denti, » e che amiamo tanto Fiorenza, che per averla amata patiamo ingiusto esilio, nondimeno le spalle del nostro giudicio più alla ragione che al senso appoggiamo. E benchè secondo il piacer » nostro, ovvero secondo la quiete della nostra sensualità, non sia »in terra loco più ameno di Fiorenza, pure rivolgendo i volumi » de' poeti e degli altri scrittori, nei quali il mondo universalmente » e particolarmente si descrive, e discorrendo fra noi i varii siti dei luoghi del mondo, e le abitudini loro tra l'uno e l'altro polo e 'l » circolo equatore, fermamente comprendo e credo molte regioni e città essere più nobili e deliziose, che Toscana e Fiorenza, ove » son nato, e di cui son cittadino, e molte nazioni e molte genti » usare più dilettevole e più utile sermone che gli Italiani. »

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Che per ira contro l'ingrata patria Dante non desse il primato al dialetto toscano, pare a me non potersi ragionevolmente pensare anche per altri argomenti. Nel Convito, opera scritta evidentemente con calma e col desiderio di riveder la patria,1 e nella Vita Nuova, operetta dettata molti anni avanti l'esilio, nelle quali più d'una volta si fa discorso della lingua nostra volgare, non si vede punto dato al dialetto toscano il primato; e quivi Dante avrebbelo fatto certamente, e con doppio fine, se tale fosse stata la sua credenza. Ma come sta, dicono alcuni critici, che nel libro del Volgare Eloquio l'autore mette fuori delle opinioni contrarie a quelle emesse nel Convito e in altre sue opere? Nel Volgare Eloquio dice, per esempio, essere il linguaggio volgare più nobile del latino, e nel Convito, al

1 Poichè fu piacere de' cilladini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gettarmi fuori del suo dolcissimo seno, nel quale nato e nutrilo fui fino al colmo della mia vita, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto il cuore di riposare l'animo stanco, e terminare il tempo che m' è dato ec. Cap. I, ed altrove.

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l'opposto, essere il latino più nobile del volgare. Inoltre danna come plebee le due fiorentine voci manucare, introcque, e quindi le pone ambedue nel suo Poema. Alla prima parte dell' obiezione si risponde che Dante era tale scrittore, che, emessa un'opinione, da lui poscia riconosciuta o creduta erronea, non si ristava con sagrifizio dell' amor proprio dal ritrattarsene. Nelle sue opere abbiamo di ciò più d'una diecina d'esempi. La questione inoltre del latino e del volgare è nel Convito trattata differentemente da quello che lo è nel Volgare Eloquio. Nella prima opera dice, che facendosi un commento latino a libro scritto in volgare, siccom'è il Convito, ed essendo un commento opera, com' egli si esprime, non da signore, ma da servo, il latino non avrebbe potuto prestarsi ad opera tale; perciocchè questo linguaggio è perpetuo ed incorruttibile e seguita l'arte, il volgare è instabile e corruttibile e seguita l'uso: l'uno perciò essere più bello, più virtuoso e più nobile dell'altro, e non potere a questo prestar convenientemente opera servile. Nel Volgare Eloquio poi chiama il volgare in genere il più nobile linguaggio, perchè esso è il più antico, il primo cioè che fosse dalla umana generazione parlato. Alla seconda parte dell' obiezione puossi rispondere, che citando il primo verso di molti poetici componimenti, Dante non intendea porre sott'occhio le sole parole in quel verso contenute, ma il dialetto nel quale il componimento era scritto. Così egualmente, ponendo a modo di esempio alcune parole dei dialetti fiorentino, pisano, lucchese e sanese, non intendea doversi rifiutare que' soli vocaboli, ma eziandio tutti gli altri che fossero di simil risma. Bene sta, risponderammisi: ma frattanto le due voci appunto da lui citate s' incontrano nel suo Poema. Per replicare a quest' istanza parmi sia sufficiente il riportare ciò che Dante stesso diceva a Can Grande, rispetto al titolo ed allo stile del suo Poema. Eccone le parole: Il titolo dell'opera è questo: Comincia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino per nascita, non per costumi. A notizia della qual cosa fa d'uopo sapere che Commedia dicesi da xun villa, e da i canto, laonde Commedia quasi canto villereccio. La Commedia infatti è una specie di narrazione poetica differente da tutte le altre: nella materia differisce dalla Tragedia per questo, che la Tragedia è nel suo cominciamento mirabile e piana, e nella fine, ossia catastrofe, fetida e

spaventevole. Da ciò appunto è detta Tragedia, cioè da τpáros capro, e da sǹ canto, quasi canto caprino, vale a dir fetido nella guisa che il capro, com' appare per Seneca nelle sue tragedie. La Commedia poi prende cominciamento dall' asprezza d' alcuna cosa, ma la sua materia ha fine prospero, com' appare per Terenzio nelle sue commedie..... Similmente nel modo del parlare la Tragedia e la Commedia sono fra loro differenti, perciocchè l' una elevato e sublime, l'altra parla rimesso ed umile, sì come vuole Orazio nella sua Poetica, là dove concede che i comici parlino alcuna volta come i tragedi, e così e converso: Interdum tamen ec. Di qui è palese perchè la presente opera è detta Commedia conciossiachè se guardiamo alla materia, ella è nel suo principio fetida e spaventevole, perch' è l'Inferno; nel fine prospera, desiderabile e grata, perch' è il Paradiso. Se guardiamo al modo di parlare, egli è rimesso ed umile, perch'è un linguaggio volgare, nel quale ancora le femminette comunicano.

Se il Poema di Dante non è pertanto una tragedia, ma una commedia; se in un componimento comico, tranne quei luoghi in cui fa d'uopo inalzare lo stile, siccome accenna Orazio, dee ordinariamente usarsi un linguaggio rimesso ed umile, quel linguaggio pure in cui le femminette comunicano; come potrassi dire, che col valersi nella Commedia di varie voci e frasi della plebe, sia Dante caduto in contradizione con se stesso? Non è egli un principio elementare, che il linguaggio e lo stile dee inalzarsi o abbassarsi a seconda della specialità del componimento che hassi fra mano? Ed infatti, per quali componimenti riserba Dante quel suo linguaggio illustre, cardinale, aulico e curiale? Per i componimenti da lui generalmente detti tragici, vale a dir sublimi, ed in ispecie per quel componimento nobilissimo ch'è chiamato Canzone, in cui si canti puramente dell' armi, dell' amore e della rettitudine. « Dante (dice il P. Ponta) esamina » nel libro secondo e decide quando e dove debbasi far luogo a que» sto volgare, e conchiude, che nella tragedia, vale a dire nello stile tragico comunemente appellato sublime. Anzi aggiunge, che >> solo in questo modo di comporre debb' essere usato; e che perciò » sia prudentemente escluso da qualunque altro degli stili, onde i letterati fann'uso nelle diverse loro composizioni: però dice, non

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