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nantur, qui Bononienses asserunt pulcriori locutione loquentes, cum ab Imolensibus, Ferrariensibus, et Mutinensibus circumstantibus aliquid proprio vulgari adsciscunt ; sicut facere quoslibet a finitimis suis convicimus, ut Sordellus 1 de Mantua sua ostendit, Cremona, Brixiæ, atque Veronæ confini: qui tantus eloquentiæ vir existens non solum in poetando, sed quomodolibet loquendo, patrium Vulgare deseruit. Accipiunt etiam præfati cives ab Imolensibus lenitatem atque mollitiem, a Ferrariensibus vero et Mutinensibus aliqualem garrulitatem, quæ propria Lombardorum est. Hanc ex commistione advenarum Longobardorum terrigenis credimus remansisse; et hæc est causa, quare Ferrariensium, Mutinensium, vel Regianorum nullum invenimus poetasse. Nam propriæ garrulitati assuefacti, nullo modo possunt ad Vulgare Aulicum, sine quadam acerbitate venire; quod multo magis de Parmensibus est putandum, qui monto pro molto dicunt. Si ergo Bononienses utrinque accipiunt, ut dictum est, rationabile videtur esse, quod eorum locutio per commistionem oppositorum, ut dictum est, ad laudabilem suavitatem remaneat temperata: quod procul dubio nostro judicio sic esse censemus. Ita si præponentes eos in vulgari sermone, sola municipalia Latinorum Vulgaria comparando considerant, allubescentes concordamus cum illis; si vero simpliciter Vulgare Bononiense præferendum extimant, dissentientes discordamus ab eis: non etenim est quod Aulicum et Illustre vocamus; quoniam si fuisset, Maximus Guido Guinicelli, Guido Ghiselerius, Fabricius, et Honestus, et alii poetantes Bononiæ, nunquam a primo divertissent; qui doctores fuerunt illustres, et Vulgarium discretione repleti. Maximus Guido:

<< Madonna, il fermo core. >>

'Di Sordello parla il Poeta nel VI del Purgatorio.

avuta mala opinione coloro, che affermano che i Bolognesi con molto bella loquela ragionano; conciò sia che dagli Imolesi, Ferraresi e Modenesi qualche cosa al loro proprio parlare aggiungano; chè tutti, si come avemo mostrato, pigliano dai loro vicini, come Sordello dimostra della sua Mantova, che con Cremona, Brescia e Verona confina. Il qual uomo fu tanto in eloquenzia, che non solamente nei Poemi, ma in ciascun modo che parlasse, il Volgare della sua patria abbandonò. Pigliano ancora i prefati cittadini dagl' Imolesi la leggerezza1 e la mollizia, e dai Ferraresi e Modenesi una certa loquacità, la qual'è propria dei Lombardi. Questa, per la mescolanza dei Longobardi forestieri, crediamo essere rimasta negli uomini di quei paesi; e questa è la ragione per la quale non ritroviamo che niuno, nè Ferrarese, nė Modenese, nè Reggiano sia stato Poeta; perciò che assuefatti alla propria loquacità, non possono per alcun modo senza qualche acerbità al Volgare Cortigiano venire; il che molto maggiormente dei Parmigiani è da pensare; i quali dicono monto per molto. Se adunque i Bolognesi dall' una, e dall' altra parte pigliano come è detto, ragionevole cosa ci pare che il loro parlare, per la mescolanza degli oppositi, rimanga di laudabile suavità temperato. Il che per giudizio nostro senza dubbio essere crediamo. Vero è che se quelli, che prepongono il vulgare sermone dei Bolognesi, nel compararlo hanno considerazione solamente ai Vulgari delle città d'Italia, volentieri ci concordiamo con loro; ma se stimano simplicemente il Volgare Bolognese essere da preferire, siamo da essi dissenzienti e discordi; perciò che egli non è quello, che noi chiamiamo Cortigiano, ed Illustre; che s'el fosse quello, il Massimo Guido Guinicelli, Guido Ghisliero, Fabrizio, ed Onesto, ed altri Poeti non sariano mai partiti da esso; perciò che furono Dottori illustri, e di piena intelligenza nelle cose volgari.

Il Massimo Guido:

<< Madonna, il fermo core. >>

La voce lenitatem del testo sa- dolcezza, che con leggerezza. rebbe più idoneamente tradotta con

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« Più non attendo il tuo soccorso, Amore. »>

Quæ quidem verba prorsus a mediastinis Bononiæ sunt diversa. Cumque de residibus in extremis Italiæ civitatibus neminem dubitare pendamus, et si quis dubitat, illum nulla nostra solutione dignamur; parum restat in nostra discussione dicendum; quare cribellum cupientes deponere, ut residentiam cito visamus, dicimus Tridentum atque Taurinum, nec non Alexandriam civitates metis Italiæ in tantum sedere propinquas, quod puras nequeunt habere loquelas; ita quod si, sicut turpissimum habent vulgare, haberent pulcerrimum, propter aliorum commistionem esse vere Latinum negaremus. Quare si Latinum illustre venamur, quod venamur in illis inveniri non potest.

CAPUT XVI.

De excellentia vulgaris eloquentiæ, et quod communis
est omnibus Italicis.

Postquam venati saltus, et pascua sumus Italiæ, nec pan teram, quam sequimur, adinvenimus; ut ipsam reperire possimus, rationabilius investigemus de illa, ut solerti studio redolentem ubique, et ubique apparentem, nostris penitus irretiamus tendiculis. Resumentes igitur venabula nostra, dicimus quod in omni genere rerum unum oportet esse, quo generis illius omnia comparentur et ponderentur: et illinc aliorum omnium mensuram accipiamus. Sicut in numero cuncta mensurantur uno, et plura, vel pauciora dicuntur, secundum quod distant ab uno, vel ei propinquant; et sic in coloribus omnes albo mensurantur; nam visibiles

' Varii testi invece di ubique han- pone di leggere nec usquam. no nec; ma il professor Witte pro

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<< Più non attendo il tuo soccorso, Amore. >>

Le quali parole sono in tutto diverse dalle proprie Bolognesi. Ora perchè noi non crediamo che alcuno dubiti di quelle città, che sono poste nelle estremità d'Italia; e se alcuno pur dubita, non lo stimiamo degno della nostra soluzione; però poco ci resta nella discussione da dire. Laonde disiando di deporre il crivello, acciocchè tosto veggiamo quello, che in esso è rimaso; dico che Trento, e Turino, ed Alessandria sono città tanto propinque ai termini d' Italia, che non ponno avere pura loquela; talchè se così come hanno bruttissimo Volgare, così l'avessero bellissimo, ancora negherei esso essere veramente Italiano per la mescolanza, che ha degli altri. E però se cerchiamo il parlare Italiano Illustre, quello che cerchiamo non si può in esse città ritrovare.

CAPITOLO XVI.

Dello eccellente parlar volgare, il quale è comune
a tutti gli Italiani.

Dappoi che avemo cercato per tutti i salti e pascoli d'Italia, e non avemo quella pantera, che cerchiamo, trovata ; per potere essa meglio trovare, con più ragione investighiamola; acciò che quella, che in ogni luogo si sente, e in ogni parte appare, con sollecito studio nelle nostre reti totalmente inviluppiamo. Ripigliando adunque i nostri istrumenti da cacciare, dicemo, che in ogni genere di cose è di bisogno che una ve ne sia, con la quale tutte le cose di quel medesimo genere si abbiano a comparare e ponderare, e quindi la misura di tutte le altre pigliare. Come nel numero tutte le cose si hanno a misurare con la unità; e diconsi più e meno, secondo che da essa unità sono più lontane, o più ad essa propinque; e così nei colori tutti si hanno a mi

DANTE. 2.

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magis dicuntur, et minus, secundum quod accedunt, vel recedunt. Et quemadmodum de iis dicimus, quæ quantitatem et qualitatem ostendunt, de prædicamentorum quolibet, et de substantia posse dici putamus,scilicet quod unumquodque mensurabile sit in genere illo, secundum id quod simplicissimum est in ipso genere. Quapropter in actionibus nostris, quantumcumque dividantur in species, hoc signum inveniri oportet, quo et ipsæ mensurentur; nam in quantum simpliciter ut homines agimus, virtutem habemus, ut generaliter illas intelligamus; nam secundum ipsam bonum et malum hominem judicamus : in quantum ut homines cives agimus, habemus legem, secundum quam dicitur civis bonus et malus: in quantum ut homines Latini agimus, quædam habemus simplicissima signa, idest morum, et habituum, et locutionis, quibus Latinæ actiones ponderantur, et mensurantur. Quæ quidem nobilissima sunt earum, quæ Latinorum sunt, actionum, hæc nullius civitatis Italiæ propria sunt, sed in omnibus communia sunt: inter quæ nunc potest discerni Vulgare, quod superius venabamur, quod in qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla. Potest tamen magis in una quam in alia redolere, sicut simplicissima substantiarum, quæ Deus est, qui in homine magis redolet, quam in bruto: in animali, quam in planta: in hac, quam in minera in hac, quam in igne:1 in igne, quam in terra. Et simplicissima quantitas, quod est unum, in impari numero redolet magis quam in pari, et simplicissimus color, qui albus est, magis in citrino quam in viridi redolet. Itaque ade

Le stampe ed i codici, invece di quam in igne, lezione proposta dal Torri, e ch'io pure ho adottata, leggono quam in cœlo. In tutto questo periodo (osserva giustamente il prelodato annotatore) Dante procede per gradazione decrescente a mostrare che Dio si manifesta meno nel soggetto susseguente che nell'antecedente. Ora, come potrebbe dirsi che Dio risplende più nelle miniere che nel cielo? Il Trissino in

fatti s'accorse dell'assurdo, ed a cansarlo tradusse cœlum per elementi. Il Torri pertanto, conformandosi alla concatenazione del periodo, prese il soggetto ignis dal membretto susseguente, e lo sostituì a cœlum dell'antecedente. Ma (quantunque io abbia adottato la proposta lezione) debbo dire, che neppur col vocabolo sostituito si rende appieno esatta nella frase susseguente, magis in igne quam in terra, la gradazione decrescente.

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