lui; ed i concetti in esso espressi concordano con quelli, ch' espresse altrove. Nel sonetto XI: Negli occhi porta la mia donna Amore, «E da' suoi raggi sopra 'l mio cor piove 1 ritrare è contrazione non da ritrarre, ma da ritraere, ritra're. 2 perdo tutte le mie prove, vale a dire, dimentico tutti i miei proponimenti. 3 Riconfortando gli occhi paurusi, che sentir prima questo gran valore, cioè, rianimando gli occhi miei paurosi, i quali sentirono dapprima, pro varono in sè, questo gran valore degli occhi della mia donna. 4 Quando son giunto, lasso! ed ei son chiusi, cioè, quando io ci son ritornato, ahi lasso! m'accorgo che i miei occhi per la paura si son chiusi. 5 Intendi: E sento che il desiderio, il quale gli conduce quivi, è venuto meno. SONETTO XXII. Io son si vago della bella luce Degli occhi traditor, che m' hanno anciso, Questo sonetto, che nelle stampe vedesi attribuito così a Dante come a Cino, pare veramente doversi ascrivere al primo. Perciocchè, oltre l'autorità dell' edizione giuntina), che col nome di Dante lo produsse a c. 19 retro, ha quelle dei cod. laurenziani 49 Plut. XL, 37 e 135 Plut. XC, egualmente che l'altra d'un codice trivulziano, contenente rime antiche, la maggior parte trascritte per mano di Lorenzo il Magnifico; codice più volte citato dal Ciampi nelle illustrazioni alle rime del poeta pistoiese. E per componimento di Dante fu del pari tenuto da uomini chiarissimi, siccome dal Biscioni e dal Salvini: anzi da quest' ultimo si racconta che piaceva assaissimo al cardinal Leopoldo de' Medici, fautore e promotore delle buone lettere. Adunque se più autorità concorrono a dar peso al credere come cosa di Dante questo sonetto, se uomini giudiziosi e valenti nol rivocarono in dubbio, anzi lo comprovarono ed avvalorarono, e finalmente se lo stile non differisce punto da quello delle altre poesie di Dante (notandovisi la solita concisione ed energia, ed una maschia e peregrina bellezza) non potremo avere nessuna difficoltà a collocarlo qual legittimo componimento nel Canzoniere del cantor di Beatrice. Egli è probabilmente uno di quei poetici componimenti, che Dante, affine di nascondere altrui l'amor suo per Beatrice, scrisse fingendo d' essere innamorato d' altra donna. Vedi la Vita Nuova. 1 vago. Vagheggiare, fare all' amore, amoreggiare, ragguardare con desiderio d' avere la cosa amata; così alla stanza 39 del canto VII del Malmantile nota il Biscioni. Il quale, dopo avere accennate diverse etimologie, soggiunge: Oppure viene da vago, avido, perchè chi è avido di godere la cosa amata, va attorno per cercarla, e si rigira come farfalla intorno al lume, davanti la bellezza di quella. Dante in un suo sonetto disse: lo son si vago della bella luce, ec. 2 pare, cioè, appare, apparisce. la vista degli occhi e quella dell'in- Si che'l viso m' andava poco innanzi. Elle soverchian lo nostro intelletto 4 5 Intendi: Che l'angoscia ch'io porto meco si vede non esser rimeritata d'alcun guiderdone. STANZA. Si lungamente m'ha tenuto Amore, Che si com' egli m' era forte 2 in pria, La donna mia, per darmi più salute. E si è cosa umil, che non si crede. Sebbene in quasi tutte le edizioni questo componimento vedasi fra i sonetti, pure non è che la prima stanza d'una canzone da Dante, per la sopravvenuta morte di Beatrice, non proseguita. Infatti l'undecimo verso è un settenario e non un endecasillabo. In essa voleva il Poeta trattare di ciò, che in lui operava la virtù della sua donna, e come pareagli esser disposto a simile operazione. Vedi la Vita Nuova. Morte, poich'io non truovo a cui mi doglia, 3 Ove ch'io miri, o in qual parte ch' io sia; 2 Che 'l colpo tuo mi tolle, se disface La donna, che con seco il mio cor porta, Quella ch'è d'ogni ben la vera portą. Morte, qual sia la pace che mi tolli, Perchè dinanzi a te piangendo vegno, Qui non l'assegno; Se guardi agli occhi Se guardi alla pietà Se guardi al segno chè veder lo puoi, miei di pianto molli; ch'ivi entro tegno; ch' io porto de' tuoi. Deh se paura già co' colpi suoi M' ha cosi concio, che farà 'l tormento?" S'io veggio il lume de' begli occhi spento, Che suol essere a' miei si dolce guida, Ben veggio che 'l mio fin consenti e vuoi : Sentirai dolce sotto il mio lamento: Ch'io temo forte già, per quel ch' io sento, Che per aver di minor doglia strida,7 Vorrò morire, e non fia chi m'occida. Morte, se tu questa gentile occidi, Lo cui sommo valore all' intelletto Mostra perfetto 9 ciò che 'n lei si vede, Tu discacci virtù, tu la disfidi; 8 Tu togli a leggiadria il suo ricetto; Tu l'alto effetto spegni di mercede; Tu disfai la beltà ch'ella possiede, La qual tanto di ben più ch' altra luce, Quanto conven, che cosa che n'adduce Lume di cielo in creatura degna: Tu rompi e parti tanta buona fede Di quel verace Amor, che la conduce, Se chiudi, Morte, la sua bella luce, Amor potrà 10 ben dire ovunque regna: Io ho perduto la mia bella insegna. Morte, adunque di tanto mal t'incresca, Quanto seguiterà 11 se costei muore ; Che fia 'l maggiore si sentisse mai, 12 Distendi 13 l'arco tuo sì, che non esca Pinta per corda 14 la saetta fore, Che per passare il core messa v' hai. Questa, in cui Dio mise grazia tanta. Quel filo, a cui s' attien la mia speranza, 16 -- E quel che sanza questa donna io posso: Non solo in molti codici (come, per esempio, in alcuni della Riccardiana, nei laurenziani 13 Plut. XC, e 44 Plut. XL, e nel redigeriano, di cui parlasi nel Dante del Viviani) ma altresì in tutte le collezioni a stampa, come nella giuntina c. 21 ec., vedesi questa canzone attribuita giustamente all'Alighieri. È una delle più affettuose di lui, ed è improntata di tali bellezze, che non puossi dubitare un momento (nè infatti alcuno il potè) della sua originalità. La canzone apparisce dettata nel tempo della mortale malattia di Beatrice. Tutte le stanze, di che ella è composta, cominciano con una invocazione alla Morte, e a questa il Poeta dirige le sue parole, perchè vuol far prova d'ammansirla. Egli espone tutte le ragioni, che il suo ingegno potea rinvenire |