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RIME APOCRIFE.

CANZONE.

Oimè lasso quelle treccie bionde,
Dalle quai rilucieno

D'aureo color gli poggi d'ogn' intorno ;
Oimè la bella cera, e le dolci onde,
Che nel cor mi sedieno,

Di que' begli occhi al ben segnato giorno; Oimè 'l fresco ed adorno

E rilucente viso;

Oimè lo dolce riso,

Per lo qual si vedea la bianca neve
Fra le rose vermiglie d'ogni tempo;
Oimè senza meve,

Morte, perchè 'l togliesti si per tempo?
Oimè caro diporto e bel contegno;
Oimè dolce accoglienza,

Ed accorto intelletto e ben pensato ;
Oimè bello, umíle, alto disdegno,
Che mi crescea l'intenza

D' odiar lo vile e d'amar l'alto stato
Oimè 'l disio nato

Di si bella creanza ;

Oimè quella speranza,

Ch'ogni altra mi facea veder addietro,
E lieve mi rendea d' Amor lo peso;
Oime! rotto hai qual vetro,

Morte, che vivo m' hai morto ed impeso!
Oimè! donna, d'ogni virtù donna,

Dea, per cui d'ogni dea,

Siccome volse Amor, feci rifiuto ;
Oimè di che pietra qual colonna
In tutto 'l mondo avea,

Che fosse degna in aere darti aiuto?
Oimè vasel compiuto

Di ben sopra natura

Per volta di ventura

Condotto fosti suso gli aspri monti,
Dove t'ha chiuso, ohimè! fra duri sassi
La Morte, che due fonti

Fatto ha di lagrimar gli occhi miei lassi.
Oimè! Morte, finchè non ti scolpa,

Dimmi almen per gli tristi occhi miei,
Se tua man non mi spolpa,

Finir non deggio di chiamar omei?

Questa canzone fu erroneamente attribuita a Dante dall'edizione di Rime antiche, Venezia 1518, per Guglielmo di Monferrato, sulla cui fede la riprodussero gli editori del passato secolo e del presente, mentre il Giunti aveala già rifiutata, essendosi limitato a ristamparla in fine della sua raccolta del 1527 sotto nome d'autore incerto. Essa è pertanto di Cino; poichè nei molti codici da me veduti non si riscontra mai col nome di Dante, ma bensì in parecchi col nome di Cino; il Pilli ed il Ciampi, appoggiati a buone autorità, la produssero siccome di Cino; e siccome di Cino, e non già di Dante, la citano il Trissino, il Quadrio ed altri. Infatti lo stile, passionato sì ma verboso, ne persuade non ad altri appartenere che al poeta pistoiese.

Ma a togliere ogni scrupolo, che nei più dubbiosi potesse tuttavia restare, basterà il dire, che la donna, della quale qui si piange la perdita, è Selvaggia Vergiolesi, l'amorosa di Cino. Che questa donzella facesse non breve dimora alla Sambuca (castello piantato sugli aspri monti dell' Appennino nella provincia pistoiese, ove il padre suo Filippo erasi rifuggito per

le cittadinesche fazioni), e che ella poi vi morisse, lo dicono gli scrittori della vita di Cino, lo dice l'istorico Pandolfo Arfaroli, e lo dice finalmente lo stesso Cino nelle sue poesie:

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Com' io passai per il monte Appennino,
Ove pianger mi fece il bel sembiante,
Le trecce bionde, e 'l dolce sguardo e fino,
Ch' Amor con la sua man mi pose avante.
Son. LXXIX.

Ora la donna, della quale nella presente canzone si deplora la perdita, non si dice forse con vocaboli chiari e precisi morta in sugli aspri monti dell' Appennino, lo che certamente non accadde di Beatrice, perchè morta in Firenze?

«Oimè! vasel compiuto

Di ben sopra natura,

Condotto fosti suso gli aspri monti,

Dove t' ha chiuso, ohimè! fra duri sassi

La Morte..... >>

Stanza III.

Pertanto qual senso più naturale e più vero possiamo dare a queste parole, se non quello che il poeta parli della morte di Selvaggia, accaduta nel tempo della ritirata del padre suo in montagna? E per di più farò osservare, che il ritratto della sua donna, fatto qui dal poeta, è pienamente conforme a quello di madonna Selvaggia fatto altrove da Cino. Nel sonetto CLIV ei dice così:

« Treccie conformi al più raro metallo,

Fronte spaciosa e tinta in fresca neve,
Ciglia disgiunte, tenuette e breve,
Occhi di carbon spento e di cristallo;
Gote vermiglie, e fra loro intervallo
Naso non molto concavato e leve,
Denti di perla e parlar saggio e greve,
Labri non molto gonfi e di corallo;
Mento di picciol spazio e non disteso,
Gola decente al più caro monile,
Petto da due bei pomi risospeso ;

Braccia tonde, man candida e sottile,
Corpo non già da tutti ben inteso,

Son le bellezze di Selva gentile. »

Nella presente canzone va poi delineando l'immagine della stessa donna coi tratti medesimi del riportato sonetto: ei va piangendo le treccie conformi al più raro metallo,

Oimè lasso! quelle treccie bionde,

Dalle quai rilucieno

D'aureo color gli poggi d' ogn' intorno;

va piangendo le gote vermiglie,

. Oimè! 'l fresco ed adorno

E rilucente viso;

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(lo che non potea dirsi di Beatrice, la quale aveva, siccome rilevammo, un color pallido, un colore di perla); va piangendo i candidi denti e i labbri di corallo,

la bianca neve

Fra le rose vermiglie d'ogni tempo ec. »

Adunque non si voglia più togliere a Cino questa canzone per darla a Dante, cui non appartiene per certo.

CANZONE.

Io miro i crespi e gli biondi capegli,
De' quali ha fatto per me rete Amore

D'un fil di perle, e quando d' un bel fiore,
Per me pigliare in luogo ch' egli adesca :
E poi riguardo dentro gli occhi begli,
Che passan per gli miei dentro dal core
Con tanto vivo e lucente splendore,
Che propriamente par che dal Sol esca.
Virtù mostra che loro onor più cresca;
Ond' io che si leggiadra star la veggio,
Cosi fra me sospirando ragiono :
Oimè perchè non sono

A sol a sol con lei ov'io la chieggio?
Sicch' io potessi quella treccia bionda

Disfarla ad onda ad onda,

E far de' suoi begli occhi a' miei due specchi, Che lucon si, che non trovan parecchi.

Poi guardo l' amorosa e bella bocca,

La spaziosa fronte e'l vago piglio,

Li bianchi denti, e'l dritto naso e 'l ciglio
Polito e brun, talchè dipinto pare.

Il vago mio pensiero allor mi tocca
Dicendo Vedi allegro dar di piglio
In su quel labbro sottile e vermiglio,
Che d'ogni dolce saporito pare.
Deh odi il suo vezzoso ragionare,
Quanto ben mostra morbida e pietosa,
E come 'l suo parlar parte e divide;
Mira che quando ride

Passa ben di dolcezza ogni altra cosa.
Così di quella bocca il pensier mio
Mi sprona; perchè io

Non ho nel mondo cosa che non desse
A tal, ch' un sì con buon voler dicesse.
Poi guardo la sua svelta e bianca gola,
Commessa ben dalle spalle e dal petto,
E il mento tondo, fesso e piccioletto,
Tal che più bel cogli occhi nol disegno;
E'l gran disio che sopra lei mi vola,
Mi dice: Vedi allegro il bel diletto,
Aver quel collo fra le braccia stretto,
E fare in quella gola un picciol segno.
Poi sopraggiunge, e dice: Apri lo ingegno;
Se le parti di fuor son così belle,

L'altre, che den valer, che dentro copre ?
Chè sol per le bell' opre,

Che sono in cielo, il Sole e l'altre stelle,
Dentro da lor si crede il Paradiso :
Cosi se guardi fiso,

Pensar ben dêi, che ogni terren piacere

Si trova in lei, ma tu nol puoi vedere.

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