Per lungo abuso e per contrario, usaggio, Rimasa s'è nell' usurpato oltraggio, E però tardi si vendica il suolo Di Linceo, che si schifa di venire Ma contra a' buoni è sì ardita e forte, Ne mena il mondo sotto una bandiera, Non temeo d' Alessandro, nè di Julio, E mostrandone Cesare e Tarquino, Di quei piuttosto accresce il suo peculio, Si come ha fatto del novello Enrico, Di cui tremava ogni sfrenata cosa: Si che l'esule ben saria redito, Se morte non gli fosse sta' noiosa; Ma suso in ciel lo abbraccia la sua sposa. Ciò che si vede pinto di valore, Ciò che si legge di virtute scritto, Ciò che di laude suona Tutto si ritrovava in quel signore E' fu forma del ben che si ragiona, Il mondo ingrato d'ogni providenza, Rigor che renda il timor alla legge Contro alla fiamma delle ardenti invegge. Ma pregio, che virtù dà solamente, A chi 'l permette, amica vola, e sale Che piove Amor d'ordinato diletto, Che sempre piove Amore, Sol ivi intender de' l' animo grande, Quant'è in stato maggiore: Nè è uom gentil, nè re, nè imperadore, La cui virtute vince Nel cor gentil, sì ch'è vista di sopra, E però mando a voi ciò c' ho trovato Questa canzone, in cui si piange la morte dell' imperatore Arrigo VII, attribuita a Dante dalla veneta edizione del 1518, fu rifiutata da tutti i successivi editori, perchè riconosciuta appartenere a Cino da Pistoia. Non si ritrova nè nell' edizion de1 Giunti, nè in alcuno de'molti codici delle liriche di Dante da me consultati; ed il Quadrio nel vol. II, parte II della sua Storia citandola, mostra tenerla di Cino piuttosto che di Dante. Ed infatti per poesia di Cino la tenne Faustino Tasso dandole luogo nella sua edizione delle rime di quel poeta, e per poesia di Cino la tenne pure il Ciampi, riproducendola nell'altra sua raccolta delle rime medesime. Al giudizio di questi editori noi dobbiamo pienamente assentire, perciocchè i modi retorici e lo stile verboso in cui è dettata, escludono la possibilità che al nostro Poeta appartenga. SONETTO. Qual che voi siate, amico, vostro manto Che di saver vêr voi ho men d' un moco; Poi piacevi saver lo meo coraggio, Ed io 'l vi mostro di menzogna fore, Siccom' a quei c'ha saggio il suo parlare. Chi non è amato, s' elli è amadore, Che in cor porti dolor senza paraggio. Nella raccolta di Rime antiche, Firenze 1527, ove a c. 138 fu riportato il presente sonetto, si dà la notizia, che fu scritto da Dante Alighieri in risposta a quello di Dante da Maiano, che incomincia Per prova di saver com' vale o quanto. Ma essendochè per la frase del primo verso s'apprende, che lo scrittore di esso non conosceva il poeta maianese, può dedursi agevolmente, che non fu quegli l'Alighieri: e la ragione di ciò è questa. Dante sul principio della Vita Nuova racconta d'aver composto un sonetto intorno una sua visione, e di averlo diretto ai più famosi trovatori, che in quel tempo fiorivano. Uno di quelli che a Dante Alighieri risposero, fu Dante da Maiano con un altro sonetto, ch'è noto per le stampe, nel quale si leggono le frasi seguenti: ti rispondo brevemente, Amico meo di poco conoscente, ec. » Di qui pertanto si fa certissimo, che questi due poeti, cioè il maianese e il fiorentino, si conobbero assai di buon'ora, perciocchè quest'ultimo era allora nel suo diciottesimo anno, siccome dice egli stesso nella Vita Nuova al secondo paragrafo. E come mai Dante Alighieri, che fino dalla sua adolescenza conosceva Dante da Maiano, avrebbe nel presente sonetto, che pur si pretende responsivo ad un altro del maianese, usato l'espressione Qual che voi siate, significando per essa di non conoscerlo? Non credo già che nissuno vorrà oppormi, che Dante potesse averlo dettato innanzi l'età degli anni 18; perciocchè dal passo della Vita Nuova è facile il rilevare, che il fiorentino fu quegli che ricercò in prima l'amicizia del maianese, e non questi di quello, siccome con manifesta contradizione verrebbesi a dire sostenendo una tale opinione, dappoichè il sonetto non è missivo, ma (come ben si deduce) responsivo. Torneranno forse inutili queste poche parole, quando si getti l'occhio sopra il componimento, perciocchè di per sè stesso si palesa illegittimo: tanta è la sua scipita meschinità; e quando si sappia che nel vol. II, pag. 252 de' Poeti del primo secolo, Firenze 1816, sta col nome di Tommaso Buzzuola da Faenza, di cui per certo debb' essere, ed a cui pur volentieri ne facciamo restituzione.1 Non conoscendo, amico, vostro nomo, Amico certo son, da ciò ch' amato Tutt' altri, e capo di ciascun si chiama : Da ciò vien quanta pena Amore porta. Questo laido sonetto, che nell' edizione giuntina fu stampato a c. 138 col nome di Dante Alighieri, e che dicesi responsivo ad un altro del maianese, debbesi assolutamente rigettare per tutte quelle medesime ragioni, che abbiamo or ora portate per provare l'illegittimità dell'antecedente. Infatti dalla Raccolta de' Poeti del primo secolo, vol. II, pag. 386, apprendi amo che appartiene a Mino del Pavesaio d' Arezzo." 1 « sonetto Non conoscendo, amico, vostro nomo, che le rime anti» che comprendono fra quei di Dan » te Alighieri, è di Mino del Pave>> saio d Arezzo. » (Arrivabene, Amori ec., pag. CCLXI.) SONETTO. Ahi lasso! ch' io credea trovar pietate, Sicch' io m' accuso già persona morta: Ma più la bella donna ch' io guardai. Nell' edizione delle poesie di Cino procurata da Faustino Tasso ed in quella fattane dal Ciampi, questo sonetto si vede attribuito a quel poeta. Col nome di Cino si vede pure in qualche codice, siccome nel laurenziano 37 del Plut. XC; ma |