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Per lungo abuso e per contrario, usaggio,
Il mondo reo non sofferse la vista:
Onde la terra trista

Rimasa s'è nell' usurpato oltraggio,
E 'l ciel s'è rintegrato come saggio.
Ben de' la trista crescere il suo duolo,
Quant' ha cresciuto il disdegno e l'ardire
La dispietata morte:

E però tardi si vendica il suolo

Di Linceo, che si schifa di venire
Dentro dalle sue porte:

Ma contra a' buoni è sì ardita e forte,
Che non ridotto di bontà, nè schiera,
Ne valor val contr' a sua dura forza;
Ma come vuole, e a forza,

Ne mena il mondo sotto una bandiera,
Ne altro fugge da lei, che laude vera.
L'ardita morte non conobbe Nino,

Non temeo d' Alessandro, nè di Julio,
Ne del buon Carlo antico,

E mostrandone Cesare e Tarquino,

Di quei piuttosto accresce il suo peculio,
Ch'è di virtute amico,

Si come ha fatto del novello Enrico,

Di cui tremava ogni sfrenata cosa:

Si che l'esule ben saria redito,
Ch'è da virtù smarrito,

Se morte non gli fosse sta' noiosa;

Ma suso in ciel lo abbraccia la sua sposa.

Ciò che si vede pinto di valore,

Ciò che si legge di virtute scritto,

Ciò che di laude suona

Tutto si ritrovava in quel signore
Enrico, senza par, Cesare invitto,
Sol degno di corona.

E' fu forma del ben che si ragiona,
Il qual gastiga gli elementi, e regge

Il mondo ingrato d'ogni providenza,
Per che si volta senza

Rigor che renda il timor alla legge

Contro alla fiamma delle ardenti invegge.
Veggiam che morte uccide ogni vivente,
Che tenga di quell' organo la vita,
Che porta ogni animale;

Ma pregio, che virtù dà solamente,
Non può da morte ricever ferita,
Perch'è cosa eternale.

A chi 'l permette, amica vola, e sale
Sempre nel loco del saggio intelletto,
Che sente l'aere, ove sonando applaude
Lo spirito di laude,

Che piove Amor d'ordinato diletto,
Da cui il gentil animo è distretto.
Dunque al fin pregio, che virtude spande,
E che diventa spirito nell' are,

Che sempre piove Amore,

Sol ivi intender de' l' animo grande,
Tanto più con magnific' operare

Quant'è in stato maggiore:

Nè è uom gentil, nè re, nè imperadore,
Se non risponde a sua grandezza l'opra,
Come facea nel magnifico prince,

La cui virtute vince

Nel cor gentil, sì ch'è vista di sopra,
Con tutto che per parte non si scuopra.
Messer Guido Novello, io son ben certo,
Che 'l vostro idolo amor, idol beato,
Non vi rimuove dall' amore sperto,
Perch'è infinito merto;

E però mando a voi ciò c' ho trovato
Di Cesare, che al cielo è incoronato.

Questa canzone, in cui si piange la morte dell' imperatore Arrigo VII, attribuita a Dante dalla veneta edizione del 1518, fu rifiutata da tutti i successivi editori, perchè riconosciuta

appartenere a Cino da Pistoia. Non si ritrova nè nell' edizion de1 Giunti, nè in alcuno de'molti codici delle liriche di Dante da me consultati; ed il Quadrio nel vol. II, parte II della sua Storia citandola, mostra tenerla di Cino piuttosto che di Dante. Ed infatti per poesia di Cino la tenne Faustino Tasso dandole luogo nella sua edizione delle rime di quel poeta, e per poesia di Cino la tenne pure il Ciampi, riproducendola nell'altra sua raccolta delle rime medesime. Al giudizio di questi editori noi dobbiamo pienamente assentire, perciocchè i modi retorici e lo stile verboso in cui è dettata, escludono la possibilità che al nostro Poeta appartenga.

SONETTO.

Qual che voi siate, amico, vostro manto
Di scienza parmi tal, che non è gioco;
Sicchè per non saver, d'ira mi coco,
Non che laudarvi, sodisfarvi tanto.
Sacciate ben, ch' io mi conosco alquanto,

Che di saver vêr voi ho men d' un moco;
Nè per via saggia, come voi, non voco:
Cosi parete saggio in ciascun canto.

Poi piacevi saver lo meo coraggio,

Ed io 'l vi mostro di menzogna fore,

Siccom' a quei c'ha saggio il suo parlare.
Certanamente a mia conscienza pare,

Chi non è amato, s' elli è amadore,

Che in cor porti dolor senza paraggio.

Nella raccolta di Rime antiche, Firenze 1527, ove a c. 138 fu riportato il presente sonetto, si dà la notizia, che fu scritto da Dante Alighieri in risposta a quello di Dante da Maiano, che incomincia Per prova di saver com' vale o quanto. Ma essendochè per la frase del primo verso s'apprende, che lo scrittore di esso non conosceva il poeta maianese, può dedursi agevolmente, che non fu quegli l'Alighieri: e la ragione di ciò è questa. Dante sul principio della Vita Nuova racconta d'aver composto un sonetto intorno una sua visione, e di averlo diretto ai più famosi trovatori, che in quel tempo fiorivano. Uno di quelli che a Dante Alighieri risposero, fu

Dante da Maiano con un altro sonetto, ch'è noto per le stampe, nel quale si leggono le frasi seguenti:

ti rispondo brevemente,

Amico meo di poco conoscente, ec. »

Di qui pertanto si fa certissimo, che questi due poeti, cioè il maianese e il fiorentino, si conobbero assai di buon'ora, perciocchè quest'ultimo era allora nel suo diciottesimo anno, siccome dice egli stesso nella Vita Nuova al secondo paragrafo. E come mai Dante Alighieri, che fino dalla sua adolescenza conosceva Dante da Maiano, avrebbe nel presente sonetto, che pur si pretende responsivo ad un altro del maianese, usato l'espressione Qual che voi siate, significando per essa di non conoscerlo? Non credo già che nissuno vorrà oppormi, che Dante potesse averlo dettato innanzi l'età degli anni 18; perciocchè dal passo della Vita Nuova è facile il rilevare, che il fiorentino fu quegli che ricercò in prima l'amicizia del maianese, e non questi di quello, siccome con manifesta contradizione verrebbesi a dire sostenendo una tale opinione, dappoichè il sonetto non è missivo, ma (come ben si deduce) responsivo.

Torneranno forse inutili queste poche parole, quando si getti l'occhio sopra il componimento, perciocchè di per sè stesso si palesa illegittimo: tanta è la sua scipita meschinità; e quando si sappia che nel vol. II, pag. 252 de' Poeti del primo secolo, Firenze 1816, sta col nome di Tommaso Buzzuola da Faenza, di cui per certo debb' essere, ed a cui pur volentieri ne facciamo restituzione.1

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Non conoscendo, amico, vostro nomo,
Donde che mova, chi con meco parla,
Conosco ben, ch'è scienza di grand' uomo ;
Sicchè di quanti saccio nessun parla :
Chè si può ben conoscere d' un uomo,
Ragionando, se ha senno; chè ben parla'
Conven, poi voi laudar sarà for nomo,
E forte a lingua mia di ciò ch' uom parla.

Amico certo son, da ciò ch' amato
Per amor aggio; sacci ben chi ama,
Se non è amato, lo maggior duol porta:
Chè tal dolor tien sotto suo camato

Tutt' altri, e capo di ciascun si chiama :

Da ciò vien quanta pena Amore porta.

Questo laido sonetto, che nell' edizione giuntina fu stampato a c. 138 col nome di Dante Alighieri, e che dicesi responsivo ad un altro del maianese, debbesi assolutamente rigettare per tutte quelle medesime ragioni, che abbiamo or ora portate per provare l'illegittimità dell'antecedente. Infatti dalla Raccolta de' Poeti del primo secolo, vol. II, pag. 386, apprendi amo che appartiene a Mino del Pavesaio d' Arezzo."

1 « sonetto Non conoscendo, amico, vostro nomo, che le rime anti» che comprendono fra quei di Dan

» te Alighieri, è di Mino del Pave>> saio d Arezzo. » (Arrivabene, Amori ec., pag. CCLXI.)

SONETTO.

Ahi lasso! ch' io credea trovar pietate,
Quando si fosse la mia donna accorta
Della gran pena, che lo mio cor porta,
Ed io trovo disdegno e crudeltate,
Ed ira forte in luogo d' umiltate;

Sicch' io m' accuso già persona morta:
Ch'io veggio che mi sfida e disconforta
Ciò, che dar mi dovrebbe sicurtate.
Però parla un pensier che mi rampogna
Com' io più vivo, non sperando mai
Che tra lei e pietà pace si pogna.
Onde morir pur mi conviene omai;
E posso dir che mal vidi Bologna,

Ma più la bella donna ch' io guardai.

Nell' edizione delle poesie di Cino procurata da Faustino Tasso ed in quella fattane dal Ciampi, questo sonetto si vede attribuito a quel poeta. Col nome di Cino si vede pure in qualche codice, siccome nel laurenziano 37 del Plut. XC; ma

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