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EGLOGHE LATINE.

JOANNES DE VIRGILIO DANTI ALAGERII.

CARMEN.

Pieridum vox alma,' novis qui cantibus orbem
Mulces, lethifluum 2 vitali tollere ramo 3
Dum cupis, evolvens triplicis confinia sortis
Indita pro meritis animarum, sontibus Orcum,
Astripetis Lethen epiphobia Regna beatis ;

Delle pierie Suore, o santa voce,

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Che con rime novelle il mondo addolci,
Mentre dal tosco, ond' ha le vene infette,
Coll' arbore vital purgarlo agogni,
I confin di tre sorte disvelando

Fissi al merto dell' alme, alle ree l' Orco,
Alle purganti Lete, alle beate

1 Regni stabiliti sovra il sole ;

1 alma, idest sancta. novis, i. inauditis.

2 i. corruptum seu mortiferum, ut infernus.

3 Per questo ramo intende l'alloro, cioè l'arte poetica, con cui si purghi vizio del mondo; a simiglianza del legno dell' Esodo (XV, 25), che messo nell' acque le rese dolci di amare: quando però non

avesse a leggersi rhamno; cioè, col vitale spino della Commedia, che punge, e pungendo dà a chi è disposto la vita.

↳ damnatorum, purgantium se, et salvatorum.

5 sontibus, i. peccatoribus. Orcum. i. infernum. Astripetis, i. purgantibus se. Epiphobia, i. supra Phœbum quod est cælum empireum.

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Tanta quid heu semper jactabis seria vulgo, 1
Et nos pallentes nihil ex te vate legemus?
Ante quidem cythara pandum delphina 3 movebit
Davus, et ambigua Sphingos problemata solvet,
Tartareum præceps quam gens idiota figuret,
Et secreta poli vix experata Platoni :
Quæ tamen in triviis numquam digesta coaxat
Comicomus nebulo, qui Flaccum pelleret orbe.
Non loquor his, immo studio callentibus, inquis;
Carmine sed laico. Clerus vulgaria temnit,
Etsi non varient, quum sint idiomata mille.

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Ah perchè mai tema si grande e grave
Vorrai sempre gettare al volgo, e noi
Vati lasciar de' tuoi bei carmi privi?
E pur più presto con la cetra Davo
Trarrà il curvo delfin, sciorrà i problemi
Dell' equivoca Sfinge, che l' ignara
Gente sappia idearsi il gran baratro
E gli arcani del cielo a Plato oscuri :
Cose però, che non mai bene apprese,
S'ode ne' trivii gracidare il Zanni,
Che potria con le ciance fugar Flacco.
A lui non parlo, anzi alli savi, dici;
Ma co' versi del volgo. Il savio sprezza
La lingua popolar, s'anco una fosse,
Chè ve n'ha più di mille. Infino ad ora

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8 coaxat, ut rana. Comicomus nebulo, vir tediosus fuit ut Horatius testatur in sermonibus. Cioè, nella Sat. IX, 1. 1. Costui è detto con vocabol nuovo comicomus, cioè, buffon di commedia, a maggior espression del fatto di lui, che cantava, o leggeva scorrettamente, e in modo ridicolo i versi appunto della Commedia.

9 i. licterati. Vulgaria, prout tua poemata. mille, finitum pro infinito ponit.

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Præterea nullus, quos inter es agmine sextus,

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Nec quem consequeris cœlo, sermone forensi
Descripsit quare, censor liberrime vatum,

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Fabor, si fandi paulum concedis habenas.
Nec margaritas profliga prodigus apris,
Nec preme castalias indigna veste Sorores.
At precor ora cie, quæ te distinguere possint,
Carmine vatisono sorti communis utrique. "
Et jam multa tuis lucem narratibus orant.

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Nessun di que', fra cui tu il sesto siedi,
Cantò in sermon forense, nè pur quegli
Cui siegui al ciel poggiando. Or dunque lascia,
O de' poeti troppo aspro censore,

Che a parlarti io rallenti un po' le briglie.
Le perle non gettar prodigo a' porci,
Ne le Muse aggravar d'indegna veste:
Ma si la lingua in cotai carmi sciogli,
Che sien comuni a questa gente e a quella,
Onde tu possa farti chiaro al mondo.
E già cose parecchie d'esser conte

1 poelarum.

2 Dixit enim Dantes se inter Homerum, Virgilium, Horatium, Ovidium, et Lucanum fore sextum. Cioè, nell' Inf., canto IV, v. 102:

Si ch'i' fui sesto tra cotanto senno.

3 Statium. Vedi Purgatorio, canto XXI.

4 Nel MS. cum sequeris. Nella stampa del ch. Lorenzo Mehus, tu sequeris; e pur egli lesse sul medesimo codice: ma questa è franchezza letteraria. Senza dubbio Giovanni scrisse consequeris, voce vera latina in senso di seguir d'appresso, e, come dicesi, di conserva. Per contrario nella Volg. Eloq. di Dante (lib. 1, cap. XIII): Itaque si tuscanas examinemus loquelas, compensemus * qualiter viri præhonorati a propria diverterunt ecc., dee leggersi, cum pensemus. Dove si

osservi che præhonorati, vuol dir di sopra onorati, non già molto onorati, com'è nella traduzione del Trissino. Una con curiosetta ho notato nel comento del Boccaccio (Ediz. di Firenze, 1724, vol. VI, pag. 216).... quantunque crudel cosa sia l'uccidere ed il rubar altrui, quasi dir si puote esser niente, per rispetto a ciò ch'è il confonder le cose proprie, ed all' uccider sè medesimo; perciocchè questo passa ogni crudeltà che usar si possa nelle cose mondane.

Vedi confondere, * cioè, fondere insieme, ch'è il proprio significato, che manca nella Crusca. Dante usò il verbo semplice; Inferno, canto XI, v. 44:

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Dic age quo petiit Jovis armiger1 astra volatu :
Dic age quos flores, 2 quæ lilia fregit arator:
Die phrygias damas laceratas dente molosso :
Dic Ligurum montes, et classes parthenopeas
Carmine, quo possis Alcidæ tangere Gades,

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Et quo te refluus relegens mirabitur Ister

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Et Pharos, et quondam regnum te noscet Elissæ.
Si te fama juvat, parvo te limite septum
Non contentus eris, nec vulgo judice tolli.
En ego jam primus, si dignum duxeris esse,
Clericus Aonidum, vocalis verna Maronis,
Promere gymnasiis te delectabor ovantum

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Chieggon da te. Su via, dinne qual volo
Agli astri fe l'augel sacro di Giove:
Dinne quai fior, quai gigli l'aratore
Troncò; dinne de' frigii cavrioli
Da canin dente lacerati: dinne
De' monti di Liguria, e delle flotte
Partenopee, con suono tal, che a Gade
Giunga d' Alcide; e te legga ed ammiri
Ritroso l'Istro e il Faro; e te conosca
La piaggia ancor, che di Didon fu regno.
Se talletla la fama, il troppo angusto
Limite schiva, ed il favor del volgo.
Io ministro di Febo, e servo detto

Del buon Maron, se degno stimi, il primo
Te alle scuole godrò produr fastoso

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