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passo pericoloso della oscura selva, che non lasciò giammai uscir di sè persona viva.

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CANTO V, v. 139. Mentre che l'uno spirto, cioè madonna Francesca, questo disse, l'altro cioè Polo, piangeva si, cioè in tal maniera, che di pietade, per compassione, lo venni meno, cioè mancaronmi le forze, sì com' io morisse, E caddi come corpo morto cade. Suole alcuna volta avere tanta forza la compassione, che pare ch' ella faccia così struggere il cuore, come si strugge la neve al fuoco: di che addiviene che le forze sensibili si dileguano, e le animali rifuggono nelle più intrinseche parti del cuore quasi abbandonato e così il corpo destituito del suo sostegno, impallidito cade. E questa compassione non ha tanto l'autore per gli spiriti uditi, quanto per sè medesimo; il quale dalla coscienza rimorsa conosce sè in quella dannazion dovere cadere, se di quello che già in tal colpa ha commesso non satisfà con contrizione e penitenza a colui il quale egli ha, peccando, offeso, cioè Iddio.

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CANTO XIII, v. 58. Io son colui che tenni ambo le chiavi Del cuor di Federigo imperadore; e vuole in queste parole dire: Io son colui, il quale con le mie dimostrazioni feci dire si e no all' imperadore di qualunque cosa, come io volli; perciocchè, siccome le chiavi aprono e serrano i serrami, così io apriva il volere e 'l non volere dell' animo di Federigo; e però segue: e che le volsi Serrando e disserrando si soavi, cioè con tanto suo piacere e assentimento, Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi, in tanto gli erano accette le mie dimostrazioni. E, questo detto, vuol dimostrare che meritamente avea ogni altro tolto dal segreto dell' imperadore, dicendo: Fede portai al glorioso ufizio, cioè d'essere suo secretario, per lo qual quasi si potea dir lui esser l'imperadore, Tanta, ch'io ne perdei il sonno e i polsi. Perdesi il sonno per l'assidue meditazioni, le quali costui vuol mostrare che avesse in pensar sempre a quello che onore e grandezza fosse del signor suo; e in ciò dimostrava

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1 Madonna Francesca. Francesca da Rimini che ha raccontata la storia del suo amore e della sua morte.

2 Io venni meno si. Le stampe: Io venni men cosi.

3 Per gli spiriti uditi. Per Francesca e Paolo suo cognato dei quali ha udita la storia.

lo son colui. Piero delle Vigne segretario di Federico II. Sta fra i violenti contra sè stessi, trasformato in pianta.

5 Tanta. Le stampe generalmente: Tanto. Alcune le vene e i polsi.

singulare affezione e intera fede verso di lui i polsi son quelle parti nel corpo nostro, nelle quali si comprendono le qualità de' movimenti del cuore; e in queste, più o men correnti, si dimostrano le virtù vitali, secondochè il cuore è più o meno oppresso da alcuna passione: e perciò, dicendo costui sè avere perduti i. polsi, possiamo intendere lui voler mostrare, sè con sì assidua meditazione avere data opera alle bisogne del suo signore, che gli spiriti vitali o per difetto di cibo o di sonno o d'altra cosa ne fossero indeboliti talvolta, e cosi essersi perduta la dimostrazione la quale de' lor movimenti fanno ne' polsi. E detto questo, dimostra la cagione del suo cadimento e della sua morte dicendo: La meretrice, cioè la invidia, che mai dall'ospizio Di Cesare non torse gli occhi putti, cioè malvagi e disleali, Morte comune, d'ogni uomo, cioè vizio deducente a morte, e delle corti vizio, Infiammò contro a me, cioè accese, gli animi tutti de' cortigiani; E gl' infiammati infiammâr si Augusto, cioè l'imperador Federigo, Che i lieti onor, posseduti per lo glorioso uficio tornaro in tristi lulti, in quanto esso fu privato della grazia dell' imperadore, e dell' uficio, e del vedere,' e cacciato via L'animo mio, per disdegnoso gusto, il quale fu tanto che il fece in furia divenire, e Credendo col morir fuggire sdegno,2 cioè non essere reputato degno d' avere ricevuta la repulsa dell'imperadore, Ingiusto fece me, tanto che egli ne meritò esser dannato a quella pena, contra me giusto: volendo per avventura in queste parole intendere, che dove egli stimò, uccidendosi, mostrare la sua innocenza, avvenne che molti opinarono lui non averlo per ciò fatto, ma averlo fatto sospinto dalla coscienza, la quale il rimordea del fallo commesso. E però, a purgare questo intendimento, seguita: Per le nuove radici, chiamale nuove, perciocchè non molto tempo davanti ucciso s'era e in quel luogo convertito in pianta, d'esto legno, nel quale voi mi vedete trasformato, Vi giuro che giammai non ruppi fede Al mio signor che fu d'onor si degno. E poi parendogli con questo giuramento aver certificati della sua innocenza, segue, E se di voi alcun nel mondo riede, Conforti la memoria mia, cioè la fama, che giace Ancor del colpo che 'nvidia mi diede, quello apponendomi che io mai fatto non aveva.

1 Del vedere. Della vista; fu abbacinato, come dissero alcuni e il Boccaccio ebbe per vero.

2 Fuggire sdegno. Le stampe: Fuggir disdegno.

3 Mi diede. Le stampe: Le diede.

DALLE POESIE MINORI.

Si duole vedendosi abbandonato dalla sua amica.

Non so qual io mi voglia,

O viver o morir, per minor doglia.
Morir vorrei, chè 'l viver m' è gravoso
Veggendomi per altri esser lasciato ;
E morir non vorrei, chè, trapassato,
Più non vedrei il bel viso amoroso,
Per cui piango, invidioso

Di chi l'ha fatto suo e me ne spoglia.

A Maria Vergine.

Non treccia d'oro, non d'occhi vaghezza
Non costume real, non leggiadria,
Non giovinetta età, non melodia,
Non angelico aspetto nè bellezza,
Potè tirar dalla sovrana altezza

Il re del cielo in questa vita ria
Ad incarnare in te, dolce Maria,
Madre di grazia, specchio d' allegrezza;
Ma l' umilità tua, la qual fu tanta

Che potè romper ogni antico sdegno
Tra Dio e noi e fare il cielo aprire.
Quella ne presta dunque, madre santa;
Sicchè possiamo al tuo beato regno,
Seguendo lei, devoti ancor salire.

O regina degli angioli, o Maria,

Ch' adorni 'l ciel co' tuoi lieti sembianti,
E stella in mar dirizzi i naviganti

A porto e segno di diritta via ;

Per la gloria ove sei, vergine pia,

Ti prego guardi a' miei miseri pianti;
Increscati di me, tômmi davanti
L'insidie di colui che mi travia.
Io spero in te ed ho sempre sperato :
Vagliami il lungo amore e riverente
El qual ti porto ed ho sempre portato.
Dirizza il mio cammin; fammi possente
Di divenire ancor dal destro lato

Del tuo Figliuol fra la beata gente.
AMBROSOLI. -1.

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IACOPO PASSAVANTI.

Frate Iacopo Passavanti nacque in Firenze negli ultimi anni del secolo XIII, per quanto almeno si congettura dagli eruditi, i quali credono ch' egli fosse intorno al sessantesimo anno dell'età sua quando nel 1357 morì. Nel 1317 vestì l'abito di san Domenico nel convento di santa Maria Novella; poi fu mandato dai Superiori dell' Ordine a Parigi, affinchè in quella Università, allora tanto famosa, coltivasse il nobile ingegno di cui già si mostrava fornito. Quando ritornò in Italia attese per qualche tempo ad ammaestrare in divinità i suoi compagni di Religione; e, come colui ch' era tenuto non meno dotto che buono e prudente, fu sollevato alle maggiori dignità nell' Ordine suo. Pubblicò parecchie opere, fra le quali lo Specchio della Penitenza; dove, pregato da molti, ridusse a certo ordine per iscrittura volgare ciò che nella fiorentina lingua volgarmente avea predicato nell'anno 1354. Quest' opera (la quale fu dunque posteriore al Decamerone) è ricca di molta dottrina, e procede assai ordinatamente, con uno stile facile, chiaro e lodatissimo per la proprietà delle voci del pari che per la dolce loro commessura e pel suono del periodo, lontano ugualmente dalla negligenza del volgo e da quella troppa ricercatezza che al Boccaccio era piaciuta. Dino Compagni, Bartolomeo da San Concordio e Iacopo Passavanti sono de' più antichi ed anche dei più perfetti scrittori che vanti l'Italia.

Leggesi che a Parigi fu uno maestro che si chiamava ser Lò, il quale insegnava Logica e Filosofia, e avea molti scolari. Intervenne che uno de' suoi scolari tra gli altri, arguto e sottile in disputare, ma superbo e vizioso di sua vita, morì. E dopo alquanti di, essendo il maestro levato di notte allo studio, questo scolaro morto gli appari: il quale il maestro riconoscendo, non senza paura domandò quello che di lui era. Rispose, che era dannato. E domandandolo il maestro se le pene dello 'nferno erano gravi come si dicea; rispose, che1 infinitamente maggiori, e che colla lingua non si potrebbono contare; ma ch'egli gliene mostrerebbe alcuno saggio. Vedi tu, diss' egli,

1 Che erano infinitamente maggiori.

-

Colla lingua. Parlando.

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questa cappa di sofismi della quale io paio vestito? Questa mi grava e pesa più che se io avessi la maggiore torre di Parigi, o la maggiore montagna del mondo in su le spalle; e mai non la potrò porre giù. E questa pena m'è data dalla divina giustizia per la vanagloria ch'i' ebbi del parermi sapere più che gli altri, e spezialmente di sapere fare sottili sofismi (cioè1 argomenti di sapere vincere altrui disputando). E però questa cappa2 della mia pena n'è tutta piena; perocchè sempre mi stanno davanti agli occhi a mia confusione. E levando alto la cappa che era aperta dinanzi, disse: Vedi tu il fodero di questa cappa? Tutto è bragia e fiamma ardente di fuoco pennace,3 il quale senza veruna lena mi divampa e arde. E questa pena m'è data per lo peccato disonesto della carne, del quale fui nella vita mia viziato, e continuâlo infino alla morte senza pentimento o proponimento di rimanermene. Onde, conciossiacosachè io perseverassi nel peccato senza termine e senza fine, e averei voluto più vivere per più potere peccare, degnamente la divina giustizia m'ha dannato, e tormentando mi punisce senza termine e senza fine. E, oh me lasso! che ora intendo quello che, occupato nel piacere del peccato, e inteso a' sottili sofismi della logica non intesi mentrechè vivetti nella carne; cioè per che ragione si dea dalla divina giustizia la pena dello 'nferno senza fine all'uomo per lo peccato mortale. E acciocchè la mia venuta a te sia con alcuno utile e ammaestramento di te, rendendoti cambio di molti ammaestramenti che desti a me, porgimi la mano tua, bel maestro.5 La quale il maestro porgendo, lo scolare scosse il dito della sua mano che ardea in su la palma del maestro, dove cadde una piccola goccia di sudore, e forò la mano dall' uno all' altro lato con molto duolo e pena, come fosse stata una saetta focosa e aguta. Ora hai il saggio delle pene dello 'nferno, disse lo scolaro: e urlando con dolorosi guai spari. Il maestro rimase con grande afflizione e tormento per la mano forata ed arsa, nè mai si trovò medicina che quella piaga curasse; ma infino alla morte rimase così forata: d'onde molti presono utile ammaestramento di correzione. E il maestro compunto, tra per la paurosa visione e per lo

1 Cioè ec. Questa spiegazione fu aggiunta da qualche copista.
2 Questa cappa ec. Questa cappa che mi serve di pena.

3 Pennace nel senso di Tormentoso, Pieno di pena, meglio si scrive rebbe penace. Ora è noto che si disse ignis pennatius un fuoco artifiziato, che in guerra scagliavasi da luogo a luogo con gran celerità e gran ro- Senza lena. Senza respiro, senza interruzione. Continuâlo. Continuailo, lo continuai.

vina.

5 Bel maestro. Ora diremmo caro maestro, o simile.

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