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di Roma, e che ebbi presso che nelle mie mani della impresa guerra vittoria, venissi spontaneamente e di mio arbitrio a domandare pace, lieto sono e molto m'è a grado che tu, Scipione, sia colui da cui io la pace addimandi. E a te non è piccola loda tra gli altri tuoi grandissimi fatti di pregio degni, che Annibale, al quale gli Dii di tanti duchi ovvero imperadori romani aveano data vittoria, ti dea lato,' e arrendasi di chiedere a te la pace: e che tu sia colui che a questa guerra, famosa più che per li nostri pericoli e danni, per li vostri che ricevuti avete, abbi posto fine. Deh! che cosa è questa, e che caso o che fortuna l'ha conceduto, ch' io vegna disarmato a richiedere di pace il figliuolo, del quale col padre incominciai la guerra; ed essendo egli allora romano imperadore, con lui mi scontrai colle spiegate insegne, e commisi la prima battaglia? Ben sarebbe stata ottima cosa, che gli Dii avessono conceduto a' nostri padri tal mente, ovvero tal volontà, che voi dell'Italia, e noi dello imperio d' Africa fossimo stati contenti. Troppo vi sono costate care l'isole di Sicilia e di Sardigna, per le quali tanto navilio, tanti eserciti ed osti, tanti nobili e valorosi imperadori e duchi avete perduti; ma le cose fatte e passate si possono più tosto riprendere, che correggersi. Abbiamo noi disiderato d'occupare l' altrui, che per lo nostro ci è convenuto combattere, e difenderlo colla spada in mano. E voi non siete stati contenti della terra d'Italia, se l'Africa non fosse vostra per la qual cosa poco meno che nelle vostre porte e alle mura di Roma le 'nsegne e l'armi de' nemici avete vedute. E noi ancora di Cartagine udito abbiamo lo romorio dell'oste de' Romani. Ora essendo la vostra fortuna migliore che la nostra (della qual cosa sommamente ci maravigliamo), siamo

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col testo faran conoscere quanta cautela sia necessaria nel valersi delle antiche scritture.

1 Ti dea lato. Ti ceda: il lat. ha cessisse.

2 Più che ec. Le stampe leggono: Questa guerra famosa più per li nostri pericoli e danni, che per li vostri che ricevuti avete. Ma oltre che il lat. dice famosa pei vostri prima che pei nostri danni (bello vestris priusquam nostris cladibus insigni), è manifesto che Annibale vuol lodare Scipione d'aver saputo condurre a buon fine una guerra nella quale Roma aveva avuto sempre la peggio: la qual lode mancherebbe, se la lezione comune fosse vera.

3 Ovvero tal volontà. Queste parole sono una glossa delle precedenti in servigio di que' lettori i quali ignorassero che qui tanto è dire tal mente, quanto tal volontà. Così imperadori e duchi, eserciti ed osti sono glosse (probabilmente di qualche copista) alle quali nulla corrisponde nel latino.. 4 Abbiamo noi disiderato ec. Pare che dovrebbe leggersi: Abbiamo noi tanto disiderato... che ec. Il lat. dice: Ita aliena adpetivimus, ut ec. 5 Il testo : quod nos maxime abominaremur ; » corrisponde al nostro ciò che noi sopra tutto non avremmo voluto.

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qui per trattare di pace, tu Scipione, e io Annibale: la qual cosa innanzi ad ogni altra desiderare doveresti: e noi siamo quegli a' quali spezialmente s' appartiene, e da noi dipende che pace sia: e tutto ciò che per noi si farà, le nostre cittadi l'avranno fermo e rato. Una sola cosa ci è mestieri d'avere, cioè l'animo e 'l volere buono, che pace sia; acciocchè le cose che noi tratteremo insieme, non erriamo, ma con sani e diritti consigli facciamo. Io per me, il quale vecchio d'etade sono tornato nella mia patria, donde garzone ovvero giovanetto mi dipartii, mi truovo sì ingannato e dalle prosperità e dalle cose avverse, ch'io voglio più tosto ragione che fortuna seguire. Ben temo che la tua gioventude non faccia te più altero e feroce, che non bisognerebbe a' riposati e quieti consigli della pace. Ma saviamente farai, se tu, avvegnachè la fortuna giammai non t'ingannasse, non ti sporrai a' rischi e a' pericoli degl' incerti casi. Molto t'è andata diritta la fortuna, Scipione; chè come io fui nel vostro paese vittorioso, cioè al lago di Perugia ed a Canne, così se' tu oggi qui nel nostro paese: e prendendo tu lo 'mperio a tal ora, che appena per la giovane etade eri atto a cavalleria, e tutte le cose arditissimamente imprendendo, la fortuna infino al dì d'oggi non ti fece mai fallo, come fece al tuo padre e al tuo zio essendo in Ispagna; dove facendo vendetta della loro morte, la quale era a grande isventura e abbassamento del vostra casa, cominciasti ad avere grande onore di virtuosa franchezza e di grande pietade; la Spagna perduta ricoverasti, cacciandone valorosamente quattro osti3 della gente africana: poi creato Consolo, avvegnach' agli altri paresse assai fare di difendere l'Italia, tu, passato di qua nell' Africa, sconfiggendo e mettendo in volta due osti, e in quella medesima ora prendendo e ardendo due campi afforzati, e prendendo Siface re poderosissimo, occupando tante cittadi del suo reame e del nostro imperio, ritraesti me d'Italia, dove sedici anni in possessione era già istato. Potresti tu già dire, Scipione: L'animo mio vorrebbe più tosto vittoria, che pace; ma io ti rispondo (che per isperienza l'ho provato) che i voleri altieri, i quali fa la fortuna prospera, siccome per alcuna fiata fece a me, più

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1 Acciocchè... facciamo. È tutto una glossa; inutile come quasi tutte le glosse. Così poco appresso: garzone ovvero giovanetto, dove il testo dice semplicemente puer.

2 Al tuo padre. Il testo ha solo al tuo zio; ma il lat. dice patris et patrui, conformemente alla storia; e a due si riferiscono le parole seguenti della versione.

3 Quattro osti. Quattro eserciti affricani.

tosto disiderano cose grandi, che utili. Ma se gli Dii nelle cose prospere ci donassero buona mente, noi penseremmo non solamente quelle cose che intervenute ci fossono, ma eziandio quelle che ci potessono intervenire. E non recandoti alla mente ogni cosa che sopra ciò contare si potrebbe, assai grande esempio e ammaestramento in tutti i casi prosperi e avversi ti sono io: il quale tu vedesti già accampato tra Aniene e la città di Roma, francamente a bandiere spiegate assalire le mura di Roma: e ora mi vedi privato di due fratelli, fortissimi e famosissimi imperadori, Asdrubale e Magone,' stare davanti alle mura della propia patria quasi assediata, e pregare che in vêr di me non si faccia quelle cose per te, colle quali io già spaventai e misi in grande paura la vostra cittade. E però non è da credere a qualunque fortuna, e spezialmente a' prosperi e fortunati principj, come sono stati i tuoi; perocchè possono avere infortunato mezzo e fine, siccome è stato il mio. Ora essendo le cose nostre dubbiose e incerte, e bella e attevole 2 la pace a te che l'hai a concedere e dare, e a noi che la cheggiamo più utile e necessaria, che rimanere nemici e in guerra; migliore e più sicura cosa è la pace certa, che la sperata vittoria; perocchè la pace è nelle tue mani e nella tua balia, la vittoria è nelle mani degli Dii. O Scipione, non volere porre a rischio d' una ora la felicità e la prospera fortuna di cotanti anni: e pensa nell'animo tuo, non solamente le forze tue e 'l tuo podere, ma ancora la forza della fortuna e quella di Marte iddio delle battaglie, il quale è comune 3 a ciascheduna delle parti: e che dall'uno lato e dall' altro saranno corpi umani quegli che combatteranno. E voglio che tu sappi una cosa, che in niuno luogo rispondono meno gli avvisi secondo il volere e la speranza, che in battaglia, dove le misure non riescono: e considera il partito che hai per le mani, e a che rischio tu ti metti; che non potresti tanto di gloria e d'onore accrescere vincendo per battaglia, sopra quello ch' avresti dando la pace; quanto, se piccola sciagura t'incontrasse, la fortuna ti potrebbe d' una ora tôrre e guastare l'onore acquistato, ovvero che isperassi d'acqui

1 Asdrubale e Magone. Il lat. non ha questi nomi; ed è ben presumibile che Annibale non trovasse necessario di rammentarli a Scipione.

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2 Altevole. Conveniente. Poco appresso: più utile... che rimanere ec. Forse il Passavanti ebbe una lezione scorretta il testo è: ; « pax... nobis petentibus magis necessaria quam honesta, cioè questa pace a noi che la domandiamo è necessaria piuttosto che decorosa.

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3 Marte ec. Il lat. vim fortunæ martemque belli communem propone animo: » pensa quanto può la fortuna, e come sia incerto l'esito delle

battaglie.

stare. Cornelio Scipione, il far la pace è posto in tua podestade; ma se a battaglia ti conduci, sarà la fortuna, a cui Iddio la darà. Di ciò abbiamo davanti agli occhi nostri esempli di virtù e di felicitade, cioè prosperitade non bene usata: e si conta, che per li tempi passati fu in questo nostro paese Marco Attilio, nominato Regolo, il quale essendo vittorioso fu richiesto di pace e perchè non seppe porre modo e temperatamente usare la prospera fortuna, la quale in alto stato l' avea levato, volendoci porre sulle nostre spalle troppo grandi pesi, e addomandando importabili e aspre condizioni e patti, negò di fare la domanda di pace,1 per la qual cosa intervenne, che quanto più in alto la prosperitade l'avea levato, tanto l'avversità più villanamente il fece rovinare. Ora sta a te, che la dèi dare, non a noi che la domandiamo, di dire le condizioni e' patti della pace: e forse che ci rendiamo degni di trovare appo te buoni patti e graziose condizioni di pace; perocchè noi medesimi ci vogliamo gravare, o sofferire molti danni, per venire all' effetto della disiderata pace. E non rifiutiamo, anzi infino ad ora consentiamo, che tutte quelle cose per le quali questa guerra ebbe cominciamento, liberamente siano vostre; cioè Sicilia, Sardigna Spagna, e tutto ciò che d'isole si contiene in tutto il mare ch'è tra l'Italia e Africa. E poichè agli Iddii è così piaciuto, noi Cartaginesi distretti dentro a' confini dell' Africa staremo a vedere voi signoreggiare e reggere per mare e per terra gli altrui imperii. Ben mi par essere certo, e nol nego, che voi avete sospetta la fede e la lealtà degli Africani; perocchè la pace fu già altra volta addomandata per noi non troppo sinceramente, anzi maliziosamente e non fedelmente aspettata, rompendo la triegua e' trattati della pace; ma tutto questo 2 sarà a fermezza e a saldezza della pace: e che molte volte e per molti sia stata addomandata. E io ho inteso, o Scipione, che i vostri padri antichi negarono di non far pace: perocchè gli ambasciadori nostri che veniano a trattarla, non parvero lor tanto sofficienti e degni a si gran fatto. Ora non c'è cotale difetto e storpio; chè io Annibale son quegli che pace addomando; il quale non la chiederei, s'io non credessi che utile fosse e per questa medesima utilità ch'io la cheggio, la conserverò e at

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La domanda di pace. Forse dee leggersi: La domandata pace; ma non ci può qui servir di guida il latino, da cui la traduzione par che si vada sempre più allontanando.

2 Ma tutto questo ec. Più fedelmente tradusse il Nardi: Molto importa, o Scipione, alla fede e conservazione della pace, per cui mezzo e da cui ella sia domandata.

terrò e siccome io feci, che della guerra, la quale io cominciai, veruno non si pentè, infino a tanto che agli Dii (non) dispiacque; così m' ingegnerò, che neuno si penterà della pace per me acquistata e fatta.

GIOVANNI DA CATIGNANO.

Un monaco di Vallombrosa scrivendo la vita di questo autore, conosciuto comunemente sotto il nome di beato Giovanni dalle Celle, dice che a riferire tutti i tetri ed osceni misfatti ch' egli commise e tutte le virtuose azioni colle quali ne fece ammenda, il tempo verrebbe meno. Visse in Firenze sua patria, rotto ad ogni scelleratezza, finchè pei rimproveri dell' abbate di Vallombrosa, venne in conoscimento de' suoi delitti, e si rendette a vita migliore. Secondo le usanze di quell'età l'abbate sottopose il pentito a durissima prigionia, d'onde nol trasse se non dopo un anno, sì squallido e infermo che a gran fatica poteva reggersi in piedi. Uscito della prigione, non volle più comparire nel cospetto del mondo, ma passò il restante della sua vita nell' eremo delle Celle; dove in gran penitenza fece dimenticare le colpe della sua giovinezza, per modo che ne fu detto Beato. Ci restan di lui alcune lettere cristiane scritte dal 1373 al 1392, le quali furono lodate dal Salviati, dal Buonarroti e dal Parini per somma proprietà di vocaboli e gentilezza di modi, e sono citate dagli Accademici della Crusca.

Lettera I.

Ebbi la lettera tua, piena di guai nel mondo, piena di ruine e tribulazioni che dà il mare e la terra; per la qual cosa molto si possono contristare gli amadori del mondo, e rallegrare coloro non l'amano. Che ha fare il mondo co' servi di Cristo, che si debbano dolere delle ruine sue? a' quali santo Giovanni Evangelista dice: Figliuoli, non amate il mondo, nè quelle cose che nel mondo sono; imperciocchè ciò che è nel mondo, è concupiscenza di carne, concupiscenza d'occhi e superbia di vita, la quale non è nè viene dal Padre, ma dal mondo. E rende

1 Coloro che non l'amano.

2 Dal Padre. Da Dio, padre comune.

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