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ANDREA ORGAGNA od ORCAGNA, fiorentino, pittore, scultore e architetto, si dilettò di far versi; cosa, a dir vero, non rara tra gli artisti italiani antichi. Morì di 60 anni nel 1389.

Molti poeti han già descritto Amore
Fanciul nudo coll' arco faretrato,
Con una pezza bianca di bucato

Avvolta agli occhi, e l'alie ha di colore.
Cosi Omero e così Naso maggiore 1

1

E Virgilio e gli altri han ciò mostrato.
Ma come tutti quanti abbino errato
Mostrar lo intende l' Orgagna pittore.
Sed egli è cieco, come fa gl' inganni?
Sed egli è nudo, chi lo manda a spasso?
Se porta l'arco, tiralo un fanciullo?
S' egli è sì tener, dove son tanti anni?
E s' egli ha l'ale, come va sì basso?
Così le lor ragioni tutte annullo.

L'Amore è un trastullo:
Non è composto di legno nè d'osso,

E a molte genti fa rompere il dosso.

ANTONIO PUCCI, figliuolo di un gettatore di campane, benchè tenesse bottega, fu poeta, ed ebbe non poco di quella vena facile, briosa, la quale un secolo più tardi abbondò poi al Berni per modo che parve creatore d' un nuovo genere di poesia. Morì in Firenze sua patria dopo l'anno 1375.

Deh fammi una canzon, fammi un sonetto
Mi dice alcun c' ha la memoria scema;

E pargli pur che, datami la tema,3
Io ne debba cavare un gran diletto.

Ma e' non sa ben bene il mio difetto,

Nè quanto il mio dormir per lui si scema:
Chè prima che le rime del cor prema

Do cento e cento volte per lo letto;"

1 Il poeta latino Ovidius Naso, detto da noi Ovidio Nasone.

2 Sed, in vece di se, come ned in vece di nè, dinanzi a vocale.

3 Téma, al fem., per Argomento; ma trovasi di rado anche negli scrit

tori antichi.

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Poi lo scrivo tre volte alle mie spese,
Però che prima corregger lo voglio
Che 'l mandi fuora tra gente palese.
Ma d'una cosa tra l'altre mi doglio,

Ch' io non trovai ancora un si cortese
Che mi dicesse: Tie' il denar del foglio.
Alcuna volta soglio

Essere a bere un quartuccio menato,
E pare ancora a lor soprapagato.

Un gentiluom di Roma una fïata
Si mosse per andar alla ventura.
Su una gran pianura

Trovò un ricco e nobile castello;

Ma era sera, e fame gli è abbondata.
E come giunse a' fossi delle mura,
Ei così alla sicura

Dentro alle porte entrò, quel baron bello.
E cavalcando si scontrò un donzello;

E con gran reverenza il salutava,

E poi il dimandava

D' un buon albergo: ed egli rispondea
Che in quel castello albergo non avea.1
La cagion è, che questo gran signore,
Che signoreggia il castello e 'l paese,
(Egli è tanto cortese !)

Chiunque ci arriva vuole a sua magione,
E fa a tutti quanti un grande onore.
Questo ch' io dico è chiaro e ver palese.
A tutti fa le spese,

Chi si vuol sia o di che condizione.
Ma, non vi saprei poi dir la cagione,
Busse e mazzate fa dar infinita

A tutti alla partita.

-

Disse il Roman: Là mi convien andare,
Se mi dovessi tutto far fiaccare.

Al palazzo n' andava quel Romano.
E quel signor, come l' ebbe veduto,
A lui ne fu venuto,

E disse: O gentiluomo, scavaleate; -
E la staffa gli prese con sua mano.

1 Non avea. Comunem. Non vi era.

Lassollo fare il Roman, nè fu muto
Rendergli un bel saluto.

Disse il signor al Roman: Ben vegniate;
Siete voi troppo lasso; o come state?
E fêllo a' suoi famigli disarmare,1
El caval governare.

Per man lo prese, e 'n sala l' ha menato,
Dov' era riccamente apparecchiato.
Venuta l'acqua, e quel signor dicea:
O gentiluom, andatevi a lavare.
Ed ei senza tardare

Presto facea il suo comandamento.
Lavossi quel Roman come volea;
E po' in capo di mensa lo fe stare;
E senza dimorare,

A far i suoi comandi non fu lento.
Mangiato ch' ebbon con suo piacimento,
Vennono al tempo poi a un ricco letto.
Disse il signor perfetto:

O gentiluomo, entrate in questa sponda ;-
Ch' era dall' altra sua sposa gioconda.

Ed ei v' entrò, nè fe al dir diviso: 2

Ma quel signor da poi nel mezzo entrava,
E così si posava.

Al giorno chiaro ciascun s'è levato.
Lavossi quel Roman le mani e 'l viso,
E quel signor dell'acqua gli donava :
Ei non gliel contrastava.

Armossi tosto, e poi prese commiato.
Ma poco fu dal castel dilungato,
Che tornò indietro con chiaro visaggio,
E disse: O signor saggio,

Perchè non mi hai tu fatto bastonare,
Siccome agli altri sei uso di fare?

3

Disse il signor Perchè non l' hai servito; 3
Chè il mio comandamento hai tutto fatto.
Ma egli c'è alcun matto

Che vuol esser signor di casa mia.

1 E fello ec. Ordinò ai servi che l'aiutassero a levarsi di dosso l'ar

matura.

2 Nè fe ec. Obbedì, non fece diversamente da ciò che gli era detto. 3 Non l'hai servito. Non l' hai meritato ; uso antiquato del verbo servire.

S'i' dico: Togli, — i' son mal ubbidito,
Ma che io tolga ei mi risponde ratto;
E par che sia di patto,

Che a ciò ch' io dico tengan questa via,
E voglion pur del mio far cortesia: 1
Ond' io per questo gli fo gastigare.
Tu hai saputo fare,

Ch' a' miei comandi non hai contradiato;
E però non se' stato bastonato.

Canzon mia di': Chi non vuol bastonate,
Chi arriva a casa altrui, ed egli piaccia,'
Quel che gli è detto faccia,

E faccial tosto senza far contese:

Ch' egli è buono imparare all' altrui spese.

E voglion ec. Vogliono donare essi a me la roba mia. 2 Ed egli piaccia. Forse: Ed e' gli piaccia, sottint. di esservi, starvi.

di

SECOLO DECIMOQUINTO.

NOTIZIE STORICHE.

La morte di Gian Galeazzo Visconti mutò la condizione delle cose, e fors' anche i destini d' Italia: la quale pareva prossima a unirsi e quietare nel dominio di un solo, e fu in quella vece più che mai divisa, sconvolta da guerre intestine, corsa da eserciti forestieri.

Cagione di questi mali fu innanzi tutto lo stesso Visconti; che divise il suo Stato, e ne assegnò una parte al primogenito Giovanni Maria colla città di Milano e il titolo di Duca, un' altra parte al secondogenito Filippo Maria col nome di Conte di Pavia, e la città di Pisa con altre terre a Gabriele suo legittimato. Oltracciò, per la giovinezza di questi eredi, bisognò commettere i pubblici affari ad una Reggenza; alla quale Gian Galeazzo medesimo deputò alcuni de' suoi consiglieri. e generali, facendone capo sua moglie Caterina. Costoro furono ben presto discordi; e Caterina accrebbe quel male secondando l'arroganza di Francesco Barbavara, pochi anni addietro cameriere del duca, ma allora tanto innanzi con lei, che disponeva di ogni cosa a suo arbitrio.

Già subito dopo la morte di Gian Galeazzo i Fiorentini collegati con Bonifazio IX avevano obbligata la Reggenza a cedere Bologna, Perugia ed Assisi. Le discordie intestine poi incoraggiarono parecchie città lombarde a liberarsi; e la pertinacia di Caterina a favorire il Barbavara fu cagione che i capi delle milizie, per non rovinare con lei, voltisi al privato vantaggio, usurpassero quelle provincie che avrebbero dovuto difendere. In breve ai figli di Gian Galeazzo rimasero le sole città di Milano e Pavia; nè quivi pure poterono dirsi padroni e sicuri: perchè in Pavia prevalevano i Beccaria coi loro fautori: in Milano una parte della cittadinanza, dicendosi guelfa, sosteneva colle armi le pretensioni di Caterina; finchè poi vinta e rifuggitasi in Monza, finì di vivere il giorno 17 ottobre 1404, se

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