Sayfadaki görseller
PDF
ePub

vanna cadde in potere di Carlo, e morì soffocata l'anno 1382.

Nè Carlo III (così denominossi Carlo della Pace dopochè fu in possesso del trono) ebbe regno tranquillo: perciocchè Luigi d'Angiò che non aveva potuto aiutare Giovanna, valse per altro a infastidire il vincitore; e Carlo stesso si procacciò inquietudini non attenendo ad Urbano VI la promessa di dare ad un suo nipote il ducato di Capua. A poco a poco l'abbandonarono poi anche i suoi partigiani, parendo loro (come suole generalmente avvenire) che non li avesse degnamente rimeritati. Tuttavolta nè Luigi d'Angiò, nè Urbano poterono togliere a Carlo il suo trono: e quando egli nel 1386 fu ucciso a tradimento in Ungheria dov'era andato colla speranza di far sua anche quella corona, gli successe nel regno di Napoli il figliuolo Ladislao, e lo tenne fino al principio del secolo XV.

Frattanto nell' Alta Italia era surto un principe pari di potenza e ambizione a Roberto, e più fortunato di lui. Fu questi Gian Galeazzo Visconti denominato Conte di Virtù perchè Isabella di Francia gli portò in dote la contea di Vertus. Suo padre Galeazzo, dopo avere per qualche tempo diviso col fratello Bernabò il possesso di Milano, aveva trasferita la sua residenza in Pavia, dove morì poi nel 1378, lasciando fama di principe estremamente crudele. Gian Galeazzo nel 1385,imprigionò a tradimento il vecchio Bernabò, che d'astuzia e di crudeltà non era punto inferiore al fratello, e tirò a sè tutto lo Stato, escludendone per sempre, non solo Bernabò che morì nel castello di Trezzo, ma la sua discendenza. Quindi, potente e ambizioso non meno che scaltro e dissimulatore, spogliò dei loro Stati gli Scaligeri e i Carraresi; occupò Bologna, Assisi, Nocera, Spoleti pertinenti alla Chiesa; si fece nominar signore di Siena e Perugia; comperò Pisa ; ebbe per centomila fiorini da Venceslao il titolo di duca, e fu riconosciuto legittimo sovrano di ventotto città nell'Italia superiore. Aspirava manifestamente a impadronirsi di Firenze, contro la quale combattè con pochi intervalli per ben dieci anni. Indarno furon chiamati contro di lui Roberto re dei Romani, e il conte d'Armagnac del sangue reale di Francia: le sue forze, le sue dissimulazioni, i suoi inganni lo rendevano superiore ad ogni ostacolo: Firenze, per giudizio del Machiavelli, sarebbe caduta, se Gian Galeazzo non fosse morto (addì 3

settembre 1402) quando aveva già preparato la corona e le insegne per dichiararsi re d'Italia. Del resto la repubblica fiorentina mostrò apertamente in questo secolo di dover declinare a principato. La morte del duca di Calabria e l'imprudenza del duca d' Atene le avevan tolto dal collo due volte quel giogo al quale si era sottoposta da sè; ma le gare incessanti delle fazioni, e quell'usanza dei vinti di ricorrere ad un potente che li rialzasse, dovevano suscitare, quando che fosse, un ambizioso ed accorto che le riducesse tutte nella sua obbedienza. Cacciato il duca d' Atene, e prevalendo i Guelfi col popolo minuto, fu ammonito chiunque era tenuto ghibellino di non prendere alcun magistrato: e le cose vennero a tale in un tumulto denominato_dei_Ciompi, che fu gridato gonfaloniere un Michele di Lando pettinatore di lana; il quale, se avesse voluto, poteva occupare quel posto che il duca non seppe tenere. Cessato poi per la sua virtù quel pericolo, stettero le antiche fazioni quiete alcuni anni; finchè nel 1393 il popolo novamente oppresso ricorse a Veri de' Medici domandando che prendesse lo Stato: e credono i più ch'egli avrebbe potuto farsi principe della città. Ma quel grado che Veri allora per modestia ricusò, persistendo i Fiorentini nelle loro discordie, doveva poi essere cercato e, tenuto da' suoi discendenti.

Tra Genova e Venezia continuò anche in questo secolo, colla concorrenza nel commercio, la cagione di combattersi e agitarono una lotta famosa sotto il nome di guerra di Chioggia; perchè i Genovesi, impadronitisi di quella città, furono vicinissimi a una vittoria compiuta. E in questo secolo anche la repubblica di Venezia ebbe dentro di sè quelle dissensioni che fino allora avevano travagliata soltanto la sua nemica. L'invidia dei nobili contro l'ammiraglio Pisani fu cagione che i Genovesi sbaragliassero a Pola la flotta veneta; e per gare intestine e gelosie private il doge Marin Faliero, congiurando col popolo contro l' aristocrazia, sovvertiva la repubblica se non fosse stato scoperto a tempo e punito.

In questo secolo pieno di guerre e di turbolenze vide l'Italia due principi animosi e potenti, Roberto di Napoli e Gian Galeazzo Visconti, aspirare a ridurla tutta intiera sotto di sè. Parvero, e probabilmente anche furono, uomini ambiziosi intenti solo al proprio vantag gio nè deve recar meraviglia che i contemporanei li combattessero come rapaci e li condannassero come usur

patori nondimeno se avessero potuto effettuare i loro disegni, molto è stato ed è ancora di male, che non sarebbe avvenuto.

I costumi di questo secolo furono tali da render credibile fin anche che un frate avvelenasse Arrigo VII colla particola della comunione. Nè di tante guerre, allora agitate, trasse l'Italia almeno il vantaggio di una buona milizia perciocchè la invilirono da prima i mercenari tedeschi, dei quali si valsero i Visconti, i marchesi di Monferrato e i duchi di Savoia; poi le Compagnie di ventura: sotto il qual nome s'intendono certe bande stipendiate da un capo o condottiero che non era signore di verun luogo, ma vendeva l'opera sua e de' suoi a chiunque ne lo richiedesse. Queste Compagnie, di fede incertissima, cogli stipendi e colle estorsioni impoverivano amici e nemici del pari; studiavansi che non fosse mai pace durevole, perchè nella pace nessuno abbisognava di loro; e furon cagione che i popoli, abbandonando l'esercizio delle armi, perdessero l'antico valore. Finalmente o per caso o per colpa di tante guerre e di tanti eserciti forestieri e nazionali soggiacque l'Italia in quel secolo anche ai flagelli della fame e della peste, e perdette così gran numero di abitatori, che d'allora in poi non fu mai più popolata come prima.

E nondimeno nel secolo XIV o nel Trecento fiorirono in ogni parte d'Italia le arti e le lettere, fondando quella splendida civiltà che poi si diffuse su tutta l'Europa. Già nelle età precedenti eransi fatti, così nelle arti come nelle scienze e nelle lettere, non piccioli passi; di che sono prova alcuni edifici ancora ammirati, come la chiesa di san Marco in Venezia e il duomo di Pisa; la fama in che sappiamo ch' eran salite parecchie Università e pubbliche Scuole, massimamente di Bologna, Padova, Napoli; e le scritture che ancor ci rimangono di molti eruditi, filosofi e poeti, d' alcuni dei quali abbiam fatta menzione già innanzi. Nel secolo XIV poi, col numero delle città indipendenti, dovette crescere anche quello delle persone atte a trattare pubblici affari, a proporre buone leggi, a sostenere ambascerie; le quali persone non sorgono dove non sieno pubbliche scuole, valenti professori, biblioteche, e tutti insomma que' mezzi che si richiedono a coltivare gl' ingegni. Ben presto poi il desiderio d'assicurarsi l'indipendenza, e le guerre da città a città fecero sentir il bisogno di fortificarsi d'armi e di mura; e per conseguente il bi

sogno di procacciarsi ricchezze coll' agricoltura, coll' industria, col commercio. Quindi troviamo che in alcune provincie le campagne rendevano imagine d'immensi giardini; in molte città fiorirono fabbriche di stoffe e d'armi che tutta Europa comperava; non poche avevano banchi privilegiati in Francia ed altrove; le marittime possedevano fattorie oltre mare, in Egitto, nella Siria da per tutto si attese sollecitamente a quelle arti che più son necessarie al vivere agiato e sicuro. A questo le cittadinanze erano spinte dalla persuasione che non potrebbero altrimenti avere durabile prosperità: e coloro che già copertamente agognavano a sovvertire la libertà e farsi principi o tiranni, avevano un doppio motivo di secondare quel popolar movimento, per illudere le moltitudini, ed accrescere colla loro operosità quelle ricchezze sulle quali speravan di mettere quando che fosse le mani. Così nell' Alta Italia (per tacer dei minori) i Maggi, i Coreggeschi, gli Scaligeri, gli Estensi, i Bonacossi in Brescia, in Parma, in Verona, in Ferrara, in Mantova; poi i Polenta in Ravenna, gli Ordelaffi in Forlì, i Malatesta in Rimini; oltre Roberto in Napoli, e Galeazzo e Gian Galeazzo Visconti in Pavia e in Milano; tutti mostrarono di favorire gli studi rare gli studiosi: cominciando quella serie di protettori, dei quali avremo occasione di parlare più tardi.

ono

SCRITTORI DEL SECOLO XIV.

La lingua italiana per quasi tutto il secolo XIII fu adoperata principalmente dai poeti in materia d'amore: e quella poesia cominciò a fiorire in Sicilia e prevalse colà dal 1225 al 1250 alla corte di Federico II. Abbiamo veduto poi che alquanto più tardi, cioè nella seconda metà di quel secolo, il Guinicelli bolognese e il fiorentino Cavalcanti, senza staccarsi dagli argomenti amorosi, diedero alla nuova poesia maggior finitezza, più regolare andamento, e tal forma insomma da potersi dir letteraria. Ancor più che nella poesia è notabile nella prosa la differenza tra Matteo Spinello da Giovenazzo nel regno di Napoli, e il Malispini e il Compagni nati in Firenze; quantunque tutti e tre scrivessero di cose storiche e non molto lontani di tempo. Ma nel Compagni non vediamo soltanto una forma di

scrivere migliorata: egli non è soltanto, come il Malispini, miglior cronista di Matteo Spinello; ma lasciò uno scritto letterario propriamente detto, superiore a quanti prima di lui avevan usata in prosa la nuova lingua, non indegno di essere paragonato agli antichi, e tale insomma che non fosse facilmente superabile da quei che vennero dopo di lui. Con Dino Compagni pertanto può dirsi che avesse principio la vera letteratura italiana sul finire del secolo XIII; la quale poi nel XIV salì col poema di Dante Allighieri alla sua maggiore altezza, è fu la prima delle letterature moderne.

DANTE ALLIGHIERI.

Dante Allighieri nato di famiglia nobile e guelfa in Firenze l'anno 1265, morì a Ravenna l'anno 1321. Rispetto al corso della vita pertanto appartenne al secolo XIII assai più che al XIV; ma si ascrive nondimeno a quest'ultimo, perchè nei grandi scrittori consideriamo principalmente le opere dell'ingegno e l'efficacia che per quelle essi ebbero sulla letteratura del loro paese o generalmente sulla loro nazione. Ora l'Allighieri prima dell'anno 1300, scrivendo prose e versi d'amore, non s'era distinto gran fatto dagli altri di quella età; e solo dopo d'allora lasciolli a immensa distanza dietro di sè, quando colla Divina Commedia sollevò la poesia italiana a un' altezza non prima tentata, adoperandola nei gravi argomenti della politica e della morale.

L'Allighieri ebbe a maestro Brunetto Latini filosofo e poeta di gran fama a que' tempi; e congiunse colla filosofia e collo studio delle amene lettere anche le belle arti.

Di nove anni s'innamorò di Beatrice Portinari fanciulletta di pari età: e di lei cantò, senza nominarla, ne' primi suoi versi; e lei morta in sul fiore degli anni (nel 1290) eternò nella Divina Commedia, fingendo ch'essa gli fosse guida a visitare le sedi dei beati nel Paradiso.

La morte di Beatrice fu cagione di tanto dolore all'Allighieri, che i parenti e gli amici, temendo di peggio, per distrarlo da quel pensiero, lo indussero a prender moglie. Fu costei Gemma Donati, di quella famiglia della quale fu capo il celebre Corso. Un' antica. tradizione, accreditata dal Boccaccio, la rappresenta co

AMBROSOLI. - I.

5

« ÖncekiDevam »