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l'ultimo anno del gonfalonierato di Pier Soderini passa per le vie di Firenze un gran carro, tirato da bufoli, dipinto a ossa di morti e croci bianche; sopravi, la Morte nella spaventosa figura che le dette l'arte cristiana del medio evo; intorno, gran numero di cavalieri a foggia di morti su cavalli strutti e spolpati covertati a nero e a croci bianche, ogni cavaliere con quattro staffieri pur a foggia di morti e con torce nere alla mano: uno stendardo nero a teschi e ossa incrociate guida la orribile compagnia, la quale si trascina dietro dieci stendardi neri intonando Miserere a voci tremule e unite: dove ella si ferma, sepolcri condotti con arte mirabile intorno al carro si scoverchiano, e ne escon fuori persone vestite di nero con ossature bianche intorno al petto e alle reni e con torce nere alla mano, e si seggono su i loro sepolcri, e con trombe sorde e con suono roco e morto cantano:

Dolor pianto penitenza

Ci tormentan tuttavia:
Questa morta compagnia
Va gridando penitenza.

Fummo già come voi sete,

Voi sarete come noi:

Morti siam, come vedete,
Così morti vedrem voi:
E di là non giova poi
Dopo il mal far penitenza.
Ancor noi per carnovale
Nostri amor gimmo cantando,
E così di male in male

Venivam moltiplicando:

Or pel mondo andiam gridando
Penitenza, penitenza.

Ciechi, stolti ed insensati,

Ogni cosa il tempo fura:

Pompe, glorie, onori e stati
Passan tutti, e nulla dura:
E nel fin la sepoltura

Ci fa far la penitenza.

Si penitenza per le tante stoltezze dei popoli, penitenza per la tanta corruzione e viltà dei signori, penitenza per le colpe di tutti. La grande Italia sta per morire. In vano Nicolò Machiavelli le si adopera intorno con gli eroici rimedi della disperazione: in vano Francesco Ferrucci vuol rinsanguarla delle sue forti e pure vene. Ella è già morta, e sua sepoltura è l'alto Appennino: il papa e l'imperatore novellamente dopo sì lunghi secoli si porgon la mano sedendo a guardia della sepolta solo, e, come l'anatomico nel camposanto, freddo e impassibile resta in piedi presso la tomba per istudiare nel cadavere le cagioni della morte il Guicciardini.

II.

Ora la quinta età della letteratura nazionale, l'età del perfezionamento nella copia ordinata, nella ricca e baliosa eleganza, nell'armonica varietà, nell'unità concettuale delle forme, si svolge a punto dal 1494, l'anno della prima invasione straniera, con l'uscire del Sannazaro e del Bembo a dittatori del nuovo gusto e formatori della lingua nelle regioni del settentrione e del mezzogiorno, con l'apparire del maggior poeta, l'Ariosto, e del maggior prosatore, il Machiavelli. La maturità è circa il 1530, l'anno della caduta di Firenze, in cui morirono il Sannazaro e Andrea del Sarto: il Machiavelli era morto nel 27 e il Castiglione nel 29; Leonardo da Vinci nel 19 e Raffaello nel 20: l'Ariosto

morrà nel 33 e il Correggio nel 34. Il movimento fecondo sèguita fino al 1559, l'anno della pace di Castel Cambresis che affermò il dominio e il predominio della casa austriaca di Spagna sopra l'Italia e aprì nella penisola l'età delle signorie straniere avvalorate dal diritto europeo; e si può tenere che venisse mancando circa il 1565, un anno dopo la chiusura del concilio tridentino, che compì il rinnovamento cattolico. e soffocò la libertà del pensiero e della parola, fino allora, di fatto se non di diritto, lasciata alle lettere, o, salvo qualche resipiscenza furiosa, almen tollerata. Questi ultimi anni nell'arte son pieni della vecchiezza di Michelangelo e di Tiziano; nella letteratura, del fiore dei minori prosatori: il Guicciardini morì nel 40 e il Bembo nel 47, il Fracastoro nel 53 e il Vida nel 66: Torquato Tasso era nato nel 44.

Ma, enumerando pur questi nomi e ricorrendo con la memoria quelle tante opere a cui vanno aggiunti, mi avviene di ritornare su me stesso e domandarmi, se per avventura non abbia fatto anch'io del piagnone a gridare la morte dell'Italia, quando ella più fervidamente addimostrava la sua vitalità in così frequenti e così nobili produzioni di pensiero e di arte. E come per fermo creder morto o malato a morte un popolo, dal cui mezzo esce il Colombo a trovare fra gli errori paurosi della tradizione un nuovo mondo, dal cui mezzo esce il Machiavello a liberare d'ogni ombra mitica, d'ogni apparenza fantastica, il campo della storia e riporvi la verità del fatto umano, dal cui mezzo uscirà il Galileo a cacciare dai pianeti, loro ultimo nido, l'autorità e la fizione scolastica, a rifare col cannocchiale i cieli, col metodo sperimentale le menti? Morto questo popolo, che in nome della ragione e da parte della

libertà prende possesso del mare, del cielo, della terra e dell'uomo? E che morti sono questi a cui canta le esequie l'Ariosto, Michelangelo edifica il cimitero e scolpisce i sepolcri, i quali a gara dipingono Leonardo e Raffaello e il Tiziano? Sono dunque testamenti le filosofie del Telesio e del Bruno? Potrà bene quel filosofo della storia con molta accensione d'ingegno provarci che il movimento dell'Italia nel secolo decimosesto altro non fu che oblio spensierato della realità e un prepararsi a ben morire, che l'Italia doveva morire perchè non si era fatta nazione e non aveva la conscienza di nazione: potrà questo storico della letteratura con isqui-. site sottigliezze mostrarci che tutta l'arte del secolo decimosesto è dissoluzione, e che l'Italia doveva dissolversi perchè non credeva, perchè non aveva operato la riforma della religione. Ma la storia è quel che è: volerla rifare noi a nostro senno, voler riveder noi come un tema scolastico il gran libro dei secoli e inscrivervi sopra con cipiglio di maestri le correzioni, e, peggio, cancellar d'un frego di penna le pagine che non ci gustano, e, peggio ancora, castigare con la ferula della dialettica nostra o della nostra declamazione un popolo come uno scolare, o anche tagliargli il capo di netto quando è tutto vivo, perchè non ha fatto a punto come noi intendevamo che fosse il meglio o come noi volevamo che facesse; tutto ciò è arbitrio o ginnastica d'ingegno, ma non è il vero. La storia è quel che è: e certi spostamenti, certi oscuramenti, certe, direi, sincopi, nella ragione dell'universal movimento, nel rifrangersi della luce da uno ad altro lato, nell' affluire del sangue più tosto a quella che a questa parte del corpo sociale, sono necessarie, nè avvengon già sempre per colpa del popolo che pure ha più da soffrirne, nè

si potevano per altre disposizioni evitare, nè era bene che si evitassero.

Il cinquecento apre in Europa un'età nuova alla quale diè principio la Francia, rafforzatasi nell'unità sotto l'undecimo Luigi e compiutasi per l'aggiunta del gran feudo di Borgogna sotto l'ottavo Carlo, col manifestare la sua forza d'espansione, e la Spagna, uscendo dalle lunghissime guerre co' Mori vittoriosa, compatta, irritata al combattimento, con la conquista; e con la. rivoluzione religiosa la Germania, covante nell'inerzia feudale ardori di battaglia e lusingante gli odii antichi di razza con novelli ardiri di ragionamento; la Germania a cui anche l'impero, incominciando a fermarsi nella casa d'Austria forte di stati ereditari, dava, se non la compattezza di quelle altre due nazioni, il peso d'una gran mole; la Germania cui anche la irrequietezza del nuovo imperadore Massimiliano conferiva a riportare nell'azione europea. A cotesta età dunque la Francia e la Spagna impartirono il movimento storico, che fu quello degl'interessi dinastici, al cui servigio i monarchi adoperarono le nazioni novellamente formatesi intorno a loro; la Germania impartì un po' più tardi l'ardore della controversia e della discussione, che non doveva nè restringersi nei limiti della conscienza religiosa nè finire con i soli effetti estrinseci della riforma. Ora, dinanzi alla foga della Francia e della Spagna traboccanti dall' alveo loro, da poi che ivi il popolo nell'urto contro gli stranieri si era agglomerato con la feudalità attorno il re a forma di nazione, l'Italia non aveva che le sue tradizioni e gli ordinamenti suoi federali: il turbine poi delle passioni religiose che ventava dalle alpi germaniche non la distrasse dalla quiete solenne nella quale ella svolgeva l'elaborazione

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