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fatti vasi ebbevi un tale che molto poeteggiava fantasticando, sofista verboso, gradito ai più per la esteriore eloquenza delle parole; il quale, mescolando alle sue fantasie e finzioni poetiche le parole della filosofia che consola Boezio e introducendo Seneca in chiesa, non pur gli animi infermi e ammalati ma gli studiosi con dolci canti di sirena condusse sotto inganno alla morte della eterna verità. Lasciando con disprezzo da una parte le altre opere sue, volli cercare minutamente un suo scritto ch'egli intitola Monarchia, perchè in quello procede assai ordinatamente in apparenza, pur mescolando con alcune verità molto falso ». Notiamo di passaggio che quel che più scotta al frate è la ristorazione e la volgarizzazione operata da Dante della scienza laicale, e seguitiamone le sfuriate eloquenti. Egli, chiamando tuttavia Dante quell' uomo (ille homo), qua trova che l'affetto di parte ha oscurato il suo cuore insipiente, là che mette innanzi parole ampollose colle quali promette ciò che la sua prosuntuosa ignoranza non gli permette di mantenere. Certe prove gli paiono più tosto da passarsi con riso che da ribattere, ma le distrugge per sodisfazione degl' ignoranti: un altro argomento è vile e risibile e indegno delle sue risposte, ma risponde per utilità a chi legge. Nota altrove che potea bastare a quell' uomo il corrompere la filosofia e doveva lasciare illibata nel suo vero intendimento al meno la divina scrittura.

Vedete che è il solito stile della polemica religiosa: ma non si può negare che più d'una volta il Vernani non riporti facil vittoria su l'argomentazione un po' troppo poetica dell' Alighieri. Come tocca il debole dell'avversario quando gli osserva: il dire che i due grandi luminari significano i due reggimenti è esposizione mistica ovvero metaforica, e sì fatta teologia non è certo

argomentativa! Ancora: ordinare tutto il genere umano a volere e conseguire la beatitudine è opera di Dio e non della natura e d'un uomo solo: se Aristotile richiede tante parti di perfezione in un monarca parziale, quanto più perfetto non de' essere il monarca universale! ma chi perfetto se non Gesù Cristo? ora il pontefice è il vicario di Gesù Cristo: dunque... Il duello seguita così con le armi del raziocinio volgare su 'l campo della fede segnatosi da Dante stesso: sì che, venendo al punto della predestinazione provvidenziale del popolo romano, la vittoria del frate è splendidissima. I miracoli operati dalla provvidenza in favore di Roma? ma le son baie o fraudi del demonio. La nobiltà del popolo romano? d'un popolo, secondo la voce generale dei Santi Padri, superbo, avaro, crudele, libidinoso, sedizioso, temerario, sacrilego? E come poteva intendere al bene comune cotesto popolo idolatra e che alla idolatria costringeva le nazioni soggette, codesto popolo che la beatitudine riponeva nella gloria del mondo? E chi se non sia un pazzo oserà dire che abbia dominato giustamente su gli uomini cotesto popolo, il quale rivolto dal vero Iddio serbavasi in tutto soggetto ai demonii? Degno in vero d'essere scopo a tanto affaccendarsi della provvidenza quel Cesare Augusto, che, oltre idolatra, fu uomo lussuriosissimo, secondo leggesi nelle croniche,« nam inter duodecim catamites totidemque puellas accubare solitus erat ». Dice Dante: ciò che acquistasi in guerra è giustamente acquistato. Ma questa ragione è iniqua a primo aspetto anche nel giudizio d'un uom del contado: doveva costui distinguere tra guerre giuste ed ingiuste, e provare che i romani ebbero sempre guerre giuste: chè se ciò vuolsi provare col giudizio divino che nella guerra si manifesta, ne

séguita che nessuna vittoria è ingiusta, e, come la repubblica romana fu spesso battuta e quasi ridotta a niente, ciò avvenne di diritto. Dice Dante: Cristo approvò l'impero di Cesare quando volle nascere sotto l'editto di lui. Da questa ragione ne seguirebbe che il diavolo fece bene a tentar Cristo, Giuda a tradirlo, i giudei a crocifiggerlo, e vai discorrendo; poichè Cristo volle porsi sotto la loro potestà. Dice Dante: se il romano impero non fu di diritto, il peccato di Adamo non fu punito nella persona di Cristo. Ma quest'uomo delira a tutta forza, esclama il Vernani, e ponendo la bocca in cielo e' rasenta con la lingua la terra. Chi mai spropositò sì svergognatamente da dire che la pena dovuta per il peccato originale soggiaccia alla potestà d'un giudice terreno? allora il giudice terreno potrebbe punir di morte il fanciullo pur ora nato, poichè la morte corporale fu per divino statuto inflitta agli uomini in pena di tal peccato. Tale la lotta del frate col poeta.

Del resto la persecuzione mossa dal cardinale del Poggetto, se crebbe fama al libro della Monarchia fino allora a pena saputo 1, crebbe a un tempo ne' semplici e timorati il sospetto, che questo laico ardito il quale metteva in rima la teologia non fosse nel dogma e nella fede intierissimo. Bartolo, lucerna del diritto, nella questione su la pertinenza delle citazioni fra le giurisdizioni separate si faceva forte, è vero, dell'autorità di Dante, e dichiarava dalla cattedra « tenemus illam opinionem quam tenuit Dantes », ma non lasciava di aggiungere che per aver sostenuto l'indipendenza dell'impero venne dopo morte condannato di eresia dalla Chiesa 2; e lo ricordava, fin su 'l termine del secolo de

1 Bocc., Vita di D., ed. cit., 77. 2 BART. DE SAXOFERRATO, In secund. Digesti novi part. Coment. Lex. 1, De requir. reis, t. xvII, § Præsides.

cimoquinto, Raffael Volterrano 1. E benchè lo splendore vie più crescente del poeta abbagliasse e quasi sopraffacesse molti uomini religiosi, pure i più circospetti furono sempre desti su 'l conto suo. La condanna del cardinale del Poggetto lasciò nell'opinione dei timorati una macchia su quel nome, la quale vedremo di quando in quando rifiorire, e vedremo la Chiesa di quando in quando rifarsi su l'Alighieri della mala voglia onde era costretta a sopportare la gloria prepotente d'un laico che aveva, come gli rimproverò frate Vernani, introdotto Seneca in chiesa.

Al santo arcivescovo di Firenze Antonino, cui non parea disdicevole che san Petronio fosse autore del Satyricon, parea tuttavia che l' Alighieri notando di viltà Pier Morone avesse men fedelmente sentito; nè egli credea consentaneo alle sane dottrine che nell'Inferno dantesco mancasse il limbo de' parvoli 2. Questi i dubbii teologali del domenicano prelato: ma i frati del trecento avevano altre cagioni che teologiche ai loro sospetti e agli odii. Si sa che l'ira accigliata di Dante, quando cala su gli uomini di chiesa degenerati, appianasi, dirò così, a un modo di motteggi e di sarcasmi quasi erasmiano o volteriano. E le cocolle fatte sacca di farina ria; ẹ i moderni pastori che vogliono quinci e quindi chi gli rincalzi e chi gli alzi di dietro, tanto son gravi; e le due bestie che vanno sotto una pelle; e 'l cappuccio del predicatore il quale gonfia delle risa del volgo che non sa qual uccello si annidi nel becchetto; e sant' Antonio che

1 RAPH. VOLATERRANUS, Comentar. urbanorum XXI. s. 1. apud Claud. Marinum ec., 1603, in f., 771. 2 S. ANTONINUS, Summa Theolog., pars. III, tit. XXII, c. IV. Vedi anche: POCCIANTI, Catalog. scriptor. florentin. Firenze, Giunti, 1589.

ingrassa il porco delle questue, mentre altri che sono peggio che porci pagano i fedeli di moneta senza conio; e san Francesco che in vano contende al diavolo l'anima d'un suo seguace, e in vano aspetta da lungo tempo che approdin de' suoi al paradiso; eran colpi di punta e taglio da penetrare il vivo al clero massime regolare, perchè le imagini nella loro potente trivialità (e la trivialità usata a tempo è un elemento della grande arte; vedete Aristofane e Shakspeare, Catullo e Giovenale) sono tali da gustarle il popolo. Quindi la origine dei rumori su la poca fede di Dante, a' quali poi davano consistenza la condanna del legato e le accuse de' laici emuli ed invidiosi; e quindi, a purgare la memoria del defunto da tacce sì fatte, la impostura del Credo composto in persona di Dante da qualche suo veneratore, forse Anton da Ferrara. E tanto ciò è vero che in più codici va innanzi al Credo una notizia in forma di proemio, non di molto posteriore alla morte del poeta, ove a punto si narra d'una persecuzione di frati contro di lui, cagionata da' suoi sarcasmi e che alla sua volta fu cagione del Credo. Ecco il proemio nella sua saporita ingenuità. « Poi che l'autore, cioè Dante, ebbe compiuto questo suo libro e pubblicato, e studiato per molti solenni uomini e maestri in tolosia (teologia) e in fra gli altri di frati minori, trovarono in uno capitolo del Paradiso, dove Dante fa figura che truova san Francesco e che detto san Francesco lo domanda di questo mondo e sì come si portano i suoi frati di suo ordine, de' quali gli dice che istà molto maravigliato, però che ha tanto tempo ch'è in paradiso e mai non ve ne montò niuno e non ne seppe novella: di che Dante gli risponde sì come in detto capitolo si contiene. Di che tutto il convento di detti

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