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donna beata, nel c. XXX, e di teologia, nel XXXIII: onde la doppia accusa di colpe diverse. E che le colpe, in Dante, furon due, diverse per qualità e per gravità, e due le accuse, distintamente significate, m'ingegnerò di mostrare con questo discorso: il quale è volto, più che altro, ad emendare la comune interpretazione, che a me par confusissima, dei canti XXX e XXXII (nella parte che tocca la presente quistione). Ribatterò, innanzi tutto, in quel che hanno di falso o di mancante, le tre opinioni su riferite; e prenderò in esame alcune sentenze, gravissime, dello Scartazzini, intorno a cose dantesche che si collegano all'argomento ch'io tratto: sentenze assai lontane dal vero, ma ricevute da tutti, o s' io ricordo, non riprovate.

E cominciando, la opinione che nei rimproveri di Beatrice non vede significato altro che traviamenti amorosi, è da riprovare, perchè ai versi 85-90 del canto XXXIII, dove è apertissima l'allusione ad una seconda colpa (sebbene non paia chiaro, qual fu) nega il valore che essi hanno naturalmente e manifestamente. In quei versi, i propugnatori della detta opinione credono sia ripetuta, in altro modo, l'accusa di sensuali colpe che è nel c. XXX; o, più semplicemente, espressa una comparazione fra la teologia e la filosofia. Ma a che varrebbe una tale comparazione, se non fosse fatta a fin di ammaestrare Dante (e in Dante, gli uomini tutti), che non si stimi atta la scienza umana a comprender per sè ogni parte del vero ammaestramento questo, che è in tanti altri luoghi del poema? E l'ammaestramento, qui, è, senza dubbio, non contro a colpa, possibile in uomo, ma contro a colpa (quale ella si fosse, e quanta) attuale e propria in Dante. Perchè Beatrice accusa costu!, o gli ram

menta, che egli ha seguita una scuola, cioè un sistema di idee filosofiche, che lo ha condotto lungi da lei. Ed egli risponde:

Non mi ricorda

<< Ch'io stranïassi me giammai da voi,

<< Nè honne coscienza che rimorda.

E Beatrice incalza :

« E se tu ricordar non te ne puoi,
« . . . . or ti rammenta,

<< Come bevesti di Letè ancoi.

Nel qual breve dialogo, la risposta di Dante, chiaramente data a discolpa, dimostra da un lato, che le precedenti parole di Beatrice avevano valore e intenzione di accusa, e dall'altro, che lo sviarsi di lui non fu solamente col senso. Senonchè alcuno, la parola scuola che è nel verso 85, e che, intesa come ella è generalmente, pare in quel luogo dar ragione allo Scartazzini (o a quelli almeno che stiman reo il poeta, se non di miscredenza, di un altro fallo, oltre a lussuria), interpreta non altrimenti che compagnia. Onde l'accusa di Beatrice, nel c. XXXIII, sarebbe somigliantissima all' altra che è nel XXX: in questo, di amori vani donneschi; in quello, di viziose consuetudini. Il Barbi, che si fa strenuo sostenitore di una tale interpretazione, nel suo bel Saggio, citato innanzi, s'ingegna di dimostrare che in Dante stesso la parola scuola (come già il Notter aveva inteso) è adoperata a significar compagnia, altre volte: nel c. IV dello Inf., a v. 94, e nel c. XXXII del Purg., a v. 79. Ma si consideri che scuola, nei due casi ora citati, vale compagnia, schiera, convegno, di gente buona, la quale si

stringe intorno a persona più eccellente, e in lei si ispira e se ne avvantaggia. E però a scuola, in quei casi, va congiunta la parola o la idea di maestro. Nell'uno, senza alcun dubbio, si allude al gran potere che dovè esercitare Omero sui quattro poeti che gli fanno corona nel Limbo (1); ognun dei quali, certo, avrebbe potuto dire

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intendendo la compagnia di quei quattro, di insigne virtù poetica. Delle due lezioni, assai migliore mi sembra la prima; si perchè vi si esprime di nuovo, ed opportunamente, il concetto della eccellenza di Omero, col dir che i quattro formavan quasi una scuola intorno a quello; si perchè non è a credere che Dante mettesse insieme, nella lode di poeti grandissimi, Omero, del quale dice che andava innanzi agli altri sì come sire, e che è poeta sovrano, e Lucano, che segue in ultimo. E pareggiasse Lucano, Ovidio, Orazio a Virgilio, onore e lume degli altri poeti; a Virgilio, che era parte di quella nobile scuola: e dicesse, che c'è un canto poetico che vola come aquila sugli altri canti: strana e brutta immagine! Senzachè, è contro la proprietà del linguaggio togliere a scuola se ben si interpreti per compagnia), il significato che ha evidentissimo e naturale, di gente che apprenda, e in qualche modo dipenda da alcuno. E bene Omero fu tale. che si può chiamar maestro ed esempio di tutti i poeti pagani, che in lui mirarono; nè è buono argomento quello dello Scartazzini, che dimostrando essere miglior lezione l'altra da me rifiutata. dice (Comm.. 3a ed. Hoepli, 1899; a v. 95 del c. IV) « Orazio ed Ovidio non appartenevano alla scuola di Omero ».

di sè, per rispetto ad Omero, quel che nel c. XXI del Purg., Stazio dice di sè, per rispetto a Virgilio (94-99): che al suo ardore poetico fu incentivo ed alimento la Eneide. Nell'altro caso, dei due citati dal Barbi, a scuola vien contrapposta espressamente la parola maestro; narrandosi che Pietro, Jacopo e Giovanni, apostoli, risensando dallo stupore della trasfigurazione di Cristo,

<< . . . videro scemata loro scuola

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<< Cosi di Moisè come d'Elia,

<< Ed al maestro suo cangiata stola.

Ne vale, dire (come fa il Barbi) che Mosè ed Elia non eran parte della scuola di Cristo: perchè scuola, in quel luogo, è detto dei tre apostoli; e in ogni modo, Mosè ed Elia, perchè credenti in Cristo, perchè da questa fede fatti beati, potevano e dovevano tenerlo anche essi per loro maestro, stimarsi sua scuola. Ma, in quei misteriosi versi del c. XXXIII, scuola (se il Barbi dicesse il vero) avrebbe il significato di adunanza bassa e malvagia: e che varrebbe poi, nel v. 86, la dottrina di una siffatta scuola? Aveva forse, codesta turba viziosa, norme ben composte e precise di operare? E che varrebbe, nel v. 87, la vostra via, la via umana, contrapposta alla via divina? I rei costumi di Forese Donati, e di Dante stesso, sarebbero messi a riscontro del divino operare? E finalmente, con quanta convenienza ed opportunità e decoro, Beatrice ripiglierebbe, a un tratto, senza giusta cagione, il discorso delle sensuali colpe di Dante; quando questi se ne era chiamato reo, se ne era purgato in Lete; quando ella, giudicandolo quasi rifatto, e divenuto migliore per le acerbissime accuse ricevute umilmente, lo aveva menato a contemplare lo spettacolo di tante cose sublimi? Ed ella rinnoverebbe il discorso delle sensuali

colpe di Dante, non più con parole vaghe, generalmente, come si conveniva a donna celeste, ma alludendo, con strana gravità di linguaggio, particolarmente, alla viziosa consuetudine di Dante con amici tanto disformi da lui per mille rispetti !

Così par chiaro che Dante errò, non per sola lussuria. E che errasse anche per altro modo, consentono, come dissi, i più autorevoli commentatori del gran poema: dissentono intorno alla natura ed alla gravità del peccato. Agli uni sembra che fu dubbio in cose di fede; agli altri sembra che fu amore della umana scienza, disgiunto dalla fede, ma non repugnante ad essa. E di questi ultimi commentatori, i più credono (ed è errore) che i versi 85-90 del c. XXXIII sieno un raffronto, senz'altro. E nondimeno, affermano che nelle accuse di Beatrice si allude anche a colpa di intelletto, non ribelle ma immemore. Ma, interpretando come essi fanno quei versi, son costretti ad andar distinguendo sottilmente nelle parole di Beatrice, nel canto XXX, in guisa che qui appaiano indirizzate a colpa di senso, là a colpa d'altra natura. Così, ad esempio, fa il Bartoli. Ma chi crederà con lui (v. St. della Lett. it., 4, pag. 265), che quel verso (126)

« Questi si tolse a me, e diessi altrui,

si riferisca a infedeltà amorose; e quell'altro (130)

« E volse i passi suoi per via non vera,

si riferisca a zelo di studi filosofici ? (l. c. pag. 268). Chi crederà, dico, così, quando consideri che il verso ora

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