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allo Scartazzini "la via delle speculazioni filosofiche „; come può egli stesso interpretare le false immagini di bene del v. 131 (le quali furon principio o cagione a Dante che ei si mettesse per quella via) non altrimenti che le presenti cose del canto XXXI (v. 34), così “le cose di questo mondo, ricchezze, onori, gloria, diletto, scienza mondana....? Con che egli dà ad un effetto cagioni in tutto diverse, e fa proceder la colpa di Dante non, come dovè essere se si vuol dar fede alla sua stessa opinione, dal solo amore della umana scienza, ma anche da allettamenti terreni, soliti ad operare su noi. Se pur non si immagini che, a rinnegar la fede, Dante si inducesse per forza di disordinate passioni: come fanno talvolta i volgari, i quali chiamano false le dottrine che metton freno ai sensi. Ma se è così, Dante peccò ancor di lussuria, o d'altro amore non buono di cose mondane: e doppia, adunque, dovè esser l'accusa di Beatrice. In cosiffatte difficoltà si avvolge lo Scartazzini, per rifiutare che Dante abbia dalla sua donna rimprovero di sensuali colpe; ed è costretto a togliere alle parole stesse di lui il significato loro più comune, più evidente, più proprio. Così, nella terzina (XXXI, 58-60):

<< Non ti dovea gravar le penne in giuso,

<< Ad aspettar più colpi, o pargoletta
<< O altra vanità con sí breve uso;

lo Scartazzini (logicamente, per rispetto alla sua opinione) scorge una allusione agli studi filosofici o generalmente. scientifici, incominciati da Dante alcun tempo dopo morta Beatrice, e alla poetica arte ch'ei coltivò in quel tempo

stesso (1). Ma chi crederà che amare la poesia e la scienza nel modo stesso che fece Dante, sia o possa essere un indizio o principio di corruzione intellettuale e morale? O chi crederà che il lungo uso, l' amore del linguaggio allegorico possa far che un poeta, in una scrittura di alto stile e solenne, chiami la poesia una pargoletta; e in simil modo, un filosofo la filosofia; e l'uno e l'altro stimino la loro arte una vanità con breve uso? E finalmente, chi vorrà credere che Beatrice (XXXI, 37-63) mostri al poeta "la vanità e la stoltezza de' suoi traviamenti, scusabili in giovanetti inesperti, ma non in uomini di età matura,? Fallo da giovinetto inesperto, trascurare la sacra scienza (chi la abbia stimata un tempo cosa divina, e la abbia appresa con zelo), voltar le spalle alla fede, dubitarne ? E dico ciò, perchè il dubitare di Dante (se mai fu), non potè essere quale è in uomo volgare o in giovinetto inesperto, un dubitare a caso, per ozio, per misero orgoglio, per imitazione; ma certo dové seguire a lunghe e faticose meditazioni, come è solito in acuti intelletti, in nobili cuori; ed esser seguito (chi interpreti il canto XXX, come fa lo Scartazzini) da un mettersi apertamente contro la fede, da un rinnegarla senza ritegno. Così dà a credere quel Tanto giù cadde, che è in fine del canto; e la necessità di una divina grazia a salvare il ribelle. Ma dove è, nelle opere di Dante, un vestigio solo di tanta empietà; nelle opere di Dante, in cui, a dir dello Scartazzini (Prolegomeni, pag. 224) non troviamo un solo passo, dal quale si possa

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(1) Così appare dalla nota a v. 59. Pargoletta: «< ipse Dantes se dedit pargolettae, idest poesi, et aliis mundanis scientiis » Petr. Dant.

inferire che egli dubitasse della verità dei dogmi fondamentali della Chiesa cattolica, ? (1).

Ma l'argomento principalissimo di cui lo Scartazzini si vale, a dimostrar che Beatrice accusi Dante di tutt'altro peccato che di lussuria, è quello, che ho già accennato innanzi, ma qui riporto più ampiamente. Lo Scartazzini ragiona così (2). Poichè la lussuria è peccato che si purga in uno dei sette gironi, e Dante esce da questi, alleviato dei P; e, nonostante, ei si confessa reo e soffre penitenza nel paradiso terrestre; ragion vuole che nè di lussuria nè d'altro peccato fra' capitali egli abbia accusa da Beatrice, ma d'un traviamento di diversa natura. Il quale, si deve credere che fu nelle opinioni, se si tien conto (e come fare altrimenti ?) dei versi 85-90 del canto XXXIII; nei quali è detto chiaramente che Dante seguitò una scuola o dottrina disforme dalla teologia. Fu dunque il suo, un traviamento non sensuale, ma intellettuale. Questo è, in compendio, il ragionamento dello Scartazzini: verissimo nelle premesse, ma non in quello che dalle vere e gravi premesse si vuol dedurre. Perchè è cosa a cui non può contrastarsi, che Dante non dovesse soffrir penitenza di colpe già espiate; ma che ei ne soffra, come si finge nel poema, non dà ragione di affermare sicuramente che la nuova penitenza fu ad altro peccato, che non quelli puniti innanzi. In altra guisa ancora si può giudicare quella invenzione dantesca; ed altra conseguenza trarne, che non fa lo Scartazzini. Ed è che, in questo, Dante erri e si contraddica. Erri, immaginando che Bea

(1) E altrove, nella stessa opera, a pag. 226 « La espressione, od anche l'indizio di un dubbio, benchè lieve, intorno ad un articolo della fede cristiana non riesce scoprire in tutte le opere del Poeta ».

(2) Nei Prolegomeni, e nei vari Commenti.

trice muova rimprovero e imponga penitenza, a lui già purgato di sue colpe; a lui, divenuto degno che Virgilio gli dicesse:

<< Libero, dritto, sano è il tuo arbitrio;

e però fatto, nel primo entrare della foresta, maestro e duce di se stesso. E che sia errore e contraddizione in Dante (non, come vuole lo Scartazzini, indizio certo di una nuova forma di peccato in lui) si argomenta da ciò, che nei rimproveri di Beatrice si mira anche, a giudizio dei più, a colpa di senso. E non c'è forma di peccato, nè in teologia nè altrimenti per logica, che o non sia fra i sette nominati capitali, o non proceda da essi e ad essi in qualche modo si riferisca. Di fatto: quale è il peccato che lo Scartazzini ímputa a Dante? Con vario nome lo chiama o dubbio in cose di fede; o trascuranza della sacra dottrina che al dubbio, o a peggio, traesse il poeta; o filosofico orgoglio. E son queste, maniere nuove di peccato, per le quali bisognasse pena e luogo diversi ? Quanto ad orgoglio in fatto di filosofiche investigazioni, se Dante ne fu preso, dove sentirne la pena nel primo girone, dove sono i superbi. Che altro è, o poteva essere nel pensiero di Dante, il filosofare liberamente senza freno o norma di teologia, che una maniera di insuperbire, la più eccessiva e la più trista? Non fu Lucifero, come Dante lo chiama, il primo superbo? E superbo non fu Adamo, al quale, come Dante finge che egli stesso dica (Par., XXVI, 115-117), il " trapassar del segno „, cioè il ribellare a Dio, fu cagione di ogni male? Nè lo altro nome che lo Scartazzini dà al peccato di Dante, di dubbio in cose di fede, è più opportuno a dimostrarne la novità; anzi nemmeno la realtà. Perchè conviene di

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stinguere, come ben fa lo Scartazzini stesso, fra dubbio che non finisca in negazione, anzi in ultimo giovi a rafforzare la fede; ed incredulità. Delle due cose, il dubbio " nella mente di chi va investigando per giungere alla conoscenza della verità non è già eo ipso un peccato „; ma, ad alcuni è mezzo o via alla miscredenza (e i cosiffatti stanno a penare nel sesto cerchio d'inferno), ad altri è passaggio dalla fede tradizionale a quella fede che si fonda sulla propria persuasione, che non è soltanto accettata ma nasce dall' intima convinzione. E questo è il caso di Dante, (1). E se è così, chi stimerà reo costui? Chi, il dubitare di lui (se mai fu) non crederà che fosse ottimo mezzo alla certezza del vero? E che ci sia un dubbio buono e fecondo, il poeta stesso ci dice, ritraendo nel IV canto del Paradiso (124-132) la innata brama che l'uomo ha del vero, e il progredire di lui verso questo, e il giungerlo infine; e aggiungendo che il dubbio nasce nel nostro intelletto per virtù di natura

<< Che al sommo pinge noi di collo in collo.

Che se il dubitare di Dante fu tale, che ei ne fu tratto in errore, e divenne empio contro alla fede, il proprio luogo dove egli avrebbe dovuto sentir la pena del suo peccato (la pena, io dico, del veder questo colpito dalla divina giustizia) era anche il primo girone del purgatorio: perchè superbia è, nel concetto cristiano, la cagion prima del negar Dio.

Tante e siffatte contraddizioni e dubbiezze nascono, io credo, da ciò, che nel XXX canto si vuol ritrovare l'accusa stessa che è manifesta nei versi 85-90 del XXXIII.

(1) Comm. Lip., vol 2o, pag. 722.

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