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Così, non dal canto XXX, che pure è quello in che si rappresenta il venire di Beatrice, e il suo infierire contro il poeta che alle spiegate accuse risponde presto (XXXI) riconoscendosi reo, ma dai versi che ho detto del XXXIII, si deduce la qualità della colpa di Dante; e i versi 130 e segg. del canto XXX, i quali hanno un senso chiarissimo naturalmente, se, come vuole la sintassi e la logica, sieno congiunti ai versi che li precedono, mal riman dubbio che alludano a errore di senso o d'intelletto, se sieno separati da quelli, si illustrano e spiegano coi versi del XXXIII. Ma è procedimento strano; perchè, se pur Dante non è stato così inesperto scrittore che, in una materia di tanto peso abbia taciuto, o mal significato in principio, e in fine espresso chiaramente quel che era necessarissimo a dire, bisogna invece argomentar dal canto XXX al XXXIII, illustrare questo con quello. E se, come è manifesto a chi proceda in tal guisa, apparisca una sostanziale differenza di concetti fra i due. canti, bisogna concludere che le accuse son due, diversissime, e due furon le colpe in Dante. Delle quali una, io consento che fu il trascurare la divina scienza, e il seguitare la umana divisamente da quella: il che affermano anche lo Scartazzini e il Bartoli, e quanti tengono con loro. Ma (come si vedrà in seguito) io dissento dal Bartoli in ciò, che la umana scienza mal seguita da Dante non dico essere la filosofia, semplicemente; e dissento dallo Scartazzini, perchè il fallo di Dante, in questo, dico essere di gran lunga minore di quel che egli immagina. Tanto minore, che si potrebbe dire o nullo o diverso. In ogni modo, che Dante un tempo si straniasse dalla teologia (della qual cosa poi lo accusi Beatrice) non è a dubitare. Ma è gravissimo errore, in molti, oltrechè i fare che il discostarsi di Dante da Beatrice fosse nei due

modi che ho detto (che cioè quegli si applicasse alla cristiana filosofia, indugiando perciò di celebrar la sua donna; o che in un'empia filosofia si impigliasse), il credere che i segni di uno straniarsi siffatto si possano vedere nel canto XXX del Purgatorio, e nell'intero Convivio: in quello, perchè vi si accenni con biasimo (v. 126) all'amore di Dante per la donno gentile e per la filosofia; e nel Convivio, perchè vi si tratti della umana scienza, divisamente dalla divina, o con oblio di questa. Io ho per fermo che nulla è in quel canto del Purgatorio, che alluda alla donna gentile della Vita Nuova (la quale io credo che non fu vera donna); e nulla è ancora che alluda a studî filosofici. Ed ho per fermo che il Convivio è il libro non della umana scienza disgiunta dalla teologia (come è opinione dello Scartazzini), o inopportuna almeno e tale che valse in parte a distoglier Dante dal suo proposito di celebrare Beatrice (come è espressa opinione del D'Ancona); ma della umana scienza conciliata già con Beatrice, anzi fatta soggetta, e ricercata appunto in servigio di quella, che nel pensiero di Dante era salita a simbolo altissimo. È necessario, dunque, che io tratti la quistione, importantissima, della natura del Convivio, e dimostri di esso quel che ho affermato: onde apparisca che è vano cercare nel XXX canto del Purgatorio allusioni a un dissidio fra Beatrice e la filosofia, il quale sia manifesto in quel libro. Non egualmente necessario è ch'io tratti qui della donna gentile, se ella fu vera donna o se è a credere che sin da principio nella Vita Nuova fosse, alla immaginazione di Dante, una sensibil forma o figura della filosofia; perchè, o fu in un modo o in un altro, mi par cosa certissima che di essa donna gentile non c'è alcun ricordo nel canto XXX del Purgatorio: e questo m' ingegnerò di dimostrare in ultimo.

II.

Tratterò, innanzi, del Convivio; e prenderò in esame due luoghi di esso i quali paiono dar ragione allo Scartazzini, e a quanti hanno con lui una medesima opinione. Senonchè erra gravissimamente lo Scartazzini, interpretando com'egli fa ed altri prima aveva fatto, quei due luoghi, importantissimi; nè dalla falsa interpretazione tira il vantaggio che pur dovrebbe e potrebbe, e del concetto guasto e sformato iscusa Dante con strane ragioni. Egli scrive che l'autor del Convivio non volle in questa sua opera trattare" nè di articoli di fede, nè di questioni teologiche.... Il suo intento è di trattare di quelle cose che la ragione può comprendere per se stessa, senza l'aiuto della rivelazione e che per conseguenza l'uomo desid era naturalmente di sapere,. (Prolegomeni, pag.238239). Il qual giudizio delle intenzioni di Dante e della qualità del Convivio, se pur fosse vero, non dà ragion di credere che Dante un tempo fu ribelle alla fede. La ribellione, o il dubbio, sarebbe, se nel risolvere le questioni proposte, l'autor del Convivio venisse a risultamenti contrarii alla fede ed alla teologia (pur tacendo di questa e di quella). Ma il vero è, e lo Scartazzini non nega, che le questioni proposte son definite conformemente alla cristiana teologia. (Proleg., I, 3). Nè basta; perchè è falso che Dante, nel suo Convivio, non tocchi, anzi non discorra ampiamente di cose teologiche. Io non alludo a

ciò che ei tratta della immortalità dell'anima (II, 9), perchè è questione, come lo Scartazzini dice (l. c. pag. 238), più filosofica che teologica; ma chi crederà che spetti similmente più alla umana scienza che alla divina, il discorso degli angeli, e quello ancora della Trinità, che è congiunto col primo? (II, 5-6). E degli angeli, è dichiarata, non altrimenti che nei Padri, la natura, la gerarchia, l'ufficio. E si afferma che ci son verità (una è questa che ho detto ora), le quali al nostro intelletto, sebbene acutissimo, rimarrebbero o celate o mal note, se non fosse la divina parola, cioè la rivelazione (1). A questa, dunque, pur nel Convivio, attinge l'Alighieri; questa, riconosce unica fonte di alcuni veri; questa, non che rinneghi o schivi od oblii, ricorda, esalta, vuole a compagna del suo ragionare. E può il Convivio esser chiamato il libro della ragione indipendente; o in quale altro simile modo è piaciuto ad alcuni? Oltrechè si consideri che un libro tale non ci può essere: perchè un discorso filosofico, qualunque è, o deve accordarsi con la teologia cristiana, o repugnarle. Tenersi in un giusto mezzo, nel quale non contraddica e non consenta, ragionevolmente non può. La teologia cristiana è un sistema di idee universalissimo e intero; il quale si deriva e distende per tutti i rami della umana vita e dell' umano conoscere;

(1) II, 6 « Detto è. che, per difetto d'ammaestramento, gli antichi la verità non videro delle creature spirituali.... Ma noi semo di ciò ammaestrati da Colui che venne da Quello: da Colui che le fece, da Colui che le conserva, cioè dallo imperadore dell'universo, che è Cristo, figliuolo del sovrano Iddio e figliuolo di Maria Vergine..... uomo vero, il quale fu morto da noi perchè ci recò vita: il quale fu luce che allumina noi nelle tenebre, siccome dice Giovanni Evangelista; e disse a noi la verità di quelle cose che noi sapere senza lui non potevamo, nè vedere veramente ....»

onde chi si applica a filosofare non può tenersi dal seguitarla, o negarla. Potrà, il filosofo, tenere altro cammino, e non ribatterla apertamente, e nemmeno nominarla; ma che vale? le sarà contro egualmente. La qual condizione di cose, tanto più vera ed inevitabile dovè essere in Dante che, e per l'indole dell'ingegno suo che lo traeva a concetti alti ed universali; e per l'ossequio vivo e profondo alla filosofia aristotelica che S. Tommaso aveva illustrata e comparata con la teologia cristiana; e per la natura dei tempi in cui visse, tendenti, e nel filosofare e nell'opera, alle risoluzioni più aperte ed estreme; non potè avere, e non ebbe in animo, di seguitare una via vilmente mezzana, quasi pauroso di dire intera la sua opinione. Ed è ingiuria grave, questa che lo Scartazzini fa all'Alighieri; del quale osa, nei suoi Prolegomeni (pag. 238) sospettare che, pur conservando. un linguaggio reverente alla fede, avesse altro in pensiero. Egli osa, io dico, sospettar ciò di un uomo, a cui la schiettezza appunto della parola aspra e violenta nocque, più che altro; di un uomo che, in un'età singolarmente faziosa, si fece bello di avere abbandonate per disgusto le parti, e giudicò con eguale ira guelfi e ghibellini (Par., VI, 170-102); di un uomo che, pur levando a cielo con alte lodi di insolite virtù il giovinetto Scaligero, ed il fratello Bartolomeo, non schivò di ricordar con infamia il loro padre Alberto (Purg., XVIII, 121–126), e che colpì terribilmente con lo scherno e con l'ira i preti ei frati che gli parevan degeneri! E non nel solo. poema: nello stesso Convivio (1). Un animo siffatto, un

(1) III, 11 « Non si dee chiamare vero filosofo colui ch'è amico di sapienzia per utilità; siccome sono legisti, medici, e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano, ma per acquistar moneta o dignità.... »

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