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intelletto acuto e profondo quant' altro mai, non potè, per paura di persecuzioni e di martirio, celare il pensiero suo, o (che è peggio) mostrarlo diverso da quel che era.

Ma quali sono i luoghi del Convivio, la cui interpretazione, nello Scartazzini e in tutti forse gli studiosi di Dante, io dissi errata in principio; e che, intesi come sono ora, darebbero giusta ragione di credere che in Dante, un tempo, sopravvenisse oblio della fede, anzi dispregio? L'un di essi luoghi è questo (III, 15) " Onde, conciossiacosachè conoscere Dio e certe altre cose, come l'eternità e la prima materia, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere..... Le quali parole paiono allo Scartazzini contrarie a quella che è dottrina dei Padri intorno a ciò (Proleg., pag. 239); per qual ragione non dice, ma credo questa, che, interpretando egli il conoscere che Dante dice, nel significato di aver notizia semplicemente, gli sembri strano che la notizia appunto di Dio ci venga solo dalla rivelazione, e non ancor dalla ragione: onde non ci sia in noi curiosità naturale di alcuni altissimi veri (1). E certo, intesa così, sarebbe strana, falsa, disforme dal più comune buon senso, dalla più volgare esperienza, quella dottrina del Convivio. Ma chi crederà che Dante, un sì acuto filosofo, un sì erudito conoscitore di Aristotile, e in parte ancor di Platone (per non dire di altri antichi filosofi), vaneggiasse in quel modo? cioè osasse negare quel che è certissimo a tutti, che l'uomo ha da natura

(1) Che sia questa la ragione, per cui lo Scartazzini dice contraria alla dottrina dei Padri la sentenza di Dante, appare dal gi-dizio ch'ei dà della natura del Convivio (in Proleg., pag. 238239): giudizio che ho riportato innanzi nel testo.

un vivo zelo di rappresentare a se stesso, bene o male, distinguendola dai suoi effetti o confondendo con questi, la invisibil cagione dell'universo?; mostrasse d'ignorare che, in tempi non cristiani, siffatto zelo fu appunto in quei due greci filosofi, indagatori sottili, benchè imperfetti, della essenza di Dio e della origine delle cose? Nè altrimenti, lo stesso Dante immaginò gl'illustri pagani, nella Commedia, bramosi in vita di intender Dio appieno, e da tal brama incompiuta tormentati, in morte, nel Limbo (Purg., III, 40-44). È giusto, dunque, creder che Dante usasse la parola conoscere in un significato diverso, e più ampio; quale anche le si può dare. E si noti che l'antica lezione del luogo onde si disputa, benchè scorretta grammaticalmente, era più simile a quello che dovè essere il sentimento di Dante (1). Ma, pur ricevendo la lezione oggi accertata, niun lettore assennato potrà biasimare la sentenza di Dante, o giudicarla almeno contraria alla dottrina dei Padri, quando la ricongiunga a ciò che è detto innanzi, nello stesso cap. XV, e la consideri, come è, a guisa di conclusione del ragionamento intero che è in quello. Chi faccia cosi, vedrà che il conoscere usato dall'autore, vale non semplicemente aver notizia di cosa, in quanto ella sia e sia in una o in altra maniera, ma vedere a fondo, o in essenza; onde il desiderar di conoscere (che Dante

(1) Riferisco da una nota del Fraticelli, a questo luogo del Conv. « La volgata diceva: Onde conciossiacosachè conoscere Dio e dire altre cose quello esso è, non sia possibile ecc.; e gli Edit. Mil., notando che questo passo è stranamente sconvolto, lessero:... conoscere Dio e altre cose, e dire « quello esso è » non sia possibile. Il Witte propose .... conoscere Dio e le altre cose per quel che esse sono, non sia possibile. Ma il Cod. Rice., portando la lezione che ho messa nel testo, non lascia più luogo a congetture ».

nega sia in noi naturalmente) è un desiderare che va assai oltre il conoscimento o la notizia della esistenza e dei particolari attributi. E potrà pure alcuno, creder che Dante erri in quest'ultimo punto: e aver per certo che il desiderio umano talvolta avanza la facoltà del conoscere, sebbene non sia intenso nè urgente. Ma questo è un punto che non ispetta al dogma; e a definirlo in uno o in altro modo, non si fa ingiuria a quello. Ben la farebbe, chi togliesse all'uomo il natural potere di intender Dio e le cose divine, come par che creda di Dante lo Scartazzini. Ma, distinguendo in due parti la teoria del Convivio; delle quali una discorra i limiti dell' umano sapere, l'altra, i limiti dell'umano desiderare; si può mostrar facilmente, come la prima parte (che sola importa alla ortodossia di Dante) si accordi in tutto con la filosofia cristiana (1). Ed a prova, io qui nel testo riferirò in compendio la dottrina di lui, e in nota citerò la simil dottrina di S. Tommaso. Dante, adunque, commenta il verso "Elle soverchian lo nostro intelletto, della sua seconda canzone; col qual verso si allude alla difficoltà ed altezza delle cose che appariscono nello aspetto della Filosofia; e dimostra che ".... in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose affer

(1) Le due parti che ho detto, non hanno tale logica relazione fra loro, che l'una non possa stare senza l'altra. Che l'uomo non abbia ali in terra da giungere a Dio, non porta che ei non desideri: nè è buona ragione, per dimostrare il contrario, che (come Dante afferma in quello stesso cap. XV), se il desiderio avanzasse la facoltà del conoscere, la sapienza verrebbe meno al suo fine che è di render l'uomo beato. Perchè (ed è questa, dottrina in tutto cristiana) beato in terra non può essere alcuno: ma sì in cielo; e qui appunto la visione di Dio è intera, e però la scienza è perfetta.

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mano essere, che lo intelletto nostro guardar non può, cioè Iddio, e la eternitate, e la prima materia, che certissimamente non si veggono, e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono, intendere noi non potemo... (1). Poi si domanda " come ciò sia che la sapienzia possa fare l'uomo beato, non potendo a lui certe cose mostrare perfettamente, onde il natural desiderio che egli ha di sapere, rimane incompiuto. E risolve la quistione, dicendo che l'umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienzia che qui aver si può „; e conclude con le parole citate in principio (2). È chiaro, dunque, che Dante non nega che l'uomo abbia natural facoltà di conoscere Dio e ogni altra cosa superiore a lui ed esterna; ma nega che ei possa, finchè è in vita, penetrarne l'essenza: onde (e questo è il punto a cui si può contrastare), per ragion di ordine e di misura, il suo desiderare si agguaglia alla potenza del conseguire. L'altro luogo, dello stesso Convivio, che lo Scartazzini

(1) Summae Theologicae, P. 1a, Qu. XII, art. 4 « Non potest intellectus creatus Deum per essentiam videre, nisi inquantum Deus per suam gratiam se intellectui creato coniungit, ut intelligibile ab ipso ». Onde (art. 1o) « ..... simpliciter concedendum est, quod beati Dei essentiam vident ». E in art. XII «............ naturalis nostra cognitio a sensu principium sumit.... Ex sensibilibus autem non potest usque ad hoc intellectus noster pertingere, quod divinam essentiam videat

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(2) S. Th.-P. 2a Qu. V, art. 5° « Naturalis... cognitio cuiuslibet creaturae est secundum modum substantiae eius... Omnis autem cognitio, quae est secundum modum substantiae creatae, deficit a visione divinae essentiae, quae in infinitum excedit omnem substantiam creatam ». Vedi anche in S. Paolo (1, Cor. 13) « Videmus nunc (Deum) per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem »>.

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cita nei suoi Prolegomeni, ed erra (come tanti altri) nello interpretarlo e nel giustificarlo; è dove si narra che Danle si diè a cercare se la prima materia degli elementi era da Dio intesa „ (IV, 1). Le quali parole, nella interpretazione comune, voglion dire che un tempo, Dante entrò in dubbio che la materia prima sia stata creata (creata spiegano intesa) da Dio. E in esse, intese così, il Witte trovò un indizio di fede nulla o mancante: nè a scoprire siffatto indizio, e a giudicarne come egli fece, sarebbe bisognato l'acume di che lo loda il Gaspary (St. della Lett. it. I, 10, pag. 209; traduz. di N. Zingarelli). Non altrimenti suonano quelle parole per lo Scartazzini: sebbene questi non deduca da esse la conseguenza che si dovrebbe e potrebbe, e non ci veda un vero argomento d'incredulità, o di dubbio in cose di religione. E ciò perchè, come egli afferma, i Padri della Chiesa anch'essi furon discordi, se la materia prima sia creata o increata: la qual quistione eran soliti esprimere in questa sentenza che Alberto Magno riporta nella sua Somma Teologica: Utrum materia facta sit ad rationem sive ad exemplar aliquod. E in una guisa o nell' altra (che la materia fu sempre, o ebbe un principio), i Padri stessi indifferentemente opinarono. Non è strano, dunque (segue a dire lo Scartazzini) che Dante fra le due opinioni esitasse; e che a risolver la cosa, non gli paresse di minor peso la autorità di Averroe, che l'autorità della teologia cristiana (1). Tale è il ragionamento dello Scartazzini; ed è, con poca variazione, di qualunque altro prima e dopo

(1) Quest'ultimo argomento è del Witte, che lo Scartazzini cita. approvando.

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