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scrive come cosa passata; e il riferirla era necessario all'intendimento delle canzoni, e però allo scopo che mosse Dante a scriver quell'opera. Nella quale, nulla è che accenni a un più o meno grave discostamento da Beatrice: ed essa sembra procedere direttamente dal-. l'ultima parte della Vita Nuova, ed ha le apparenze di un saggio della nuova dottrina che Dante acquistava per far le lodi di Beatrice. Non che fosse scritta da lui col proprio intento di usare quella dottrina appunto al fine promesso già nella Vita Nuova (perchè ad altro maggior libro serbava il farlo); ma l'usarla altrimenti per insegnare ai digiuni di scienza e dar prova certissima d'avere atteso agli studî, dopo morta Beatrice, è - una tal cosa che ricorda e rafferma il proposito espresso nella Vita Nuova, e in certa guisa ne anticipa e adombra l'adempimento perfetto. Onde Vita Nuova e Convivio sono opere congiuntissime in ciò, che mostrano in Dante una condizione d'animo (salvo un breve e leggiero oblio) devota sempre a Beatrice, donna e teologia; e tutte due preludono al gran poema, lo annunziano, ne spiegano, in più umile modo, la doppia idea, amorosa e scientifi ca (1). E veramente, che il Convivio sia scritto (sebbene ad altro fine particolare) con lo stesso animo devoto a Beatrice, che già la Vita Nuova e poi la Commedia, è chiaro da ciò, che le dottrine in esso contenute sono in tutto conformi alla teologia, e quasi tutte, con poca varietà, si ritrovano nel poema. E basterebbe questo a dar cer

(1) Si ricordi quel che il poeta solennemente afferma di sè, nel XXX del Paradiso (28-31), per rispetto a Beatrice:

Dal primo giorno ch' io vidi il suo viso

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tezza al mio concetto. Perchè Beatrice, nell'ultima parte della Vita Nuova, appare a grado a grado incielata e fatta alcunchè di nuovo e sopra natura: nè alcuno dubita che sin d' allora il poeta la concepisse più o men sicuramente in forma della teologia, quale la rappresentò più tardi nella Commedia. E se è così, il non trovarsi nel Convivio cosa disforme dalla verità teologica, è prova certa che Dante, scrivendo quella sua opera, non era dimentico dell'alto fine propostosi, ed anzi si travagliava a compirlo. Nè manca, nel Convivio stesso, il ricordo (che è conferma, voluta forse dall'autore) del proposito espresso nella Vita Nuova; e vi si accenna per l'ultima volta a Beatrice, così".... di quella (cioè della immortalità dell' anima) ragionando, sarà bello terminare lo parlare di quella viva Beatrice beata, della quale più parlare in questo libro non intendo, (11, 9). Nè mancano ancora i ricordi di Beatrice, donna incielata (1), e vi si dice che ella è gloriosa (11, 7), beata (11, 9) e che ella vive in cielo con gli angioli, e in terra con l'anima del poeta (11, 2). Vive, adunque, con l'anima di costui, pur nel fervore delle investigazioni filosofiche; e l'amor degli studi si è dovuto accordare con lei, tornata nel pensiero di Dante con più alto grado e bellezza, e assoggettarsi, e servirla. Perchè null'altro se non questo appunto, significano le solenni parole in fine della Vita Nuova E di venire a ciò (di celebrare in nuova guisa Beatrice) io studio quanto posso . E poichè, come è narrato nel Convivio e come è fuor di dubbio, l'autore

„.

(1) Non mancano; sebbene l'autore stesso, in fine della Vita Nuova, si fosse proposto di non dir più di quella benedetta ecc. Tanto in lui poteva il ricordo, sempre vivo in mente; e il bisogno di significarlo e farne testimonianza agli altri!

attese agli studî alcun tempo dopo che Beatrice fu morta, e però al tempo che nella Vita Nuova è collocato l'amore per la donna gentile (si creda, o no, che la scienza egli se la rappresentò e la amò in forma di donna), e dagli studî fu tratto a dimenticare Beatrice; e d'altra parte il Convivio è tutto pieno di erudizione scientifica non pur conforme alla teologia ma procedente da essa, e la teologia è Beatrice sin dalla fine della Vita Nuova; è manifesto che il prevalere della umana scienza su Beatrice fu cosa di breve tempo, la qual durò non oltre le ultime visioni descritte nel libretto amoroso, finchè quella non ebbe assunto figura e grado di simbolo. Nè vale il dire che nel Convivio (sì la prosa e sì i versi) si accenni a una vittoria piena della filosofia sull'antico pensiero, anzi a distruzione di questo; perchè, se pure non si voglia concedere una larghezza di frasi al linguaggio poetico, e una certa facilità di accrescer le cose alla immaginazione, massimamente di uomo fervido e pronto di sua natura, si pensi che (come ho detto altra volta) la vittoria del nuovo amore sul primo è nel Convivio descritta, come cosa che fu un tempo. Ed ora non è: perchè altrimenti, a che intrecciare studiosamente le investigazioni filosofiche coi dettati teologici, e, come a fonte sicura e piena di verità, attingere alla Rivelazione, e inchinarsele; a che ricordare, con tanto ossequio ed affetto, Beatrice, e rinnovar la promessa di celebrare costei? Niun dissidio, dunque, se non passeggiero, è nel Convivio (e però anche nella Vita Nuova, se vi si creda alla allegoria della donna gentile), tra la filosofia e Beatrice; e questa ultima, non nell'aspetto di teologia; e quel dissidio stesso è compensato nel Convivio da un ragionevole accordo tra la umana scienza e Beatrice, non obliata più come donna, e inchinata omai come simbolo.

III.

Raccogliendo ora le varie cose dette fin qui, mi pare aver dimostrato con bastante chiarezza che le tre diverse opinioni intorno al peccato di Dante, da me distinte in principio, pure avendo qualche parte di vero in sè, sono da riprovare come difettive o eccessive; e nulla è nel Convivio, onde si giovi alcuna di esse. Anzi il Convivio è tale che le dimostra false in quella parte dove esse toccano le relazioni tra la filosofia e Beatrice, ed apre la via a intender queste con verità: onde parecchi errori nella interpretazione del XXX canto del Purgatorio son tolti, e appare in tutta chiarezza la mirabile storia dei due amori danteschi. E, in generale, la opinione del Poletto e l'altra dello Scartazzini son da rigettare perchè fanno una la colpa di Dante; ed erra, la prima nel toglier valore ai versi 85-90 del canto XXXIII, la seconda nel trarre a significazione di intellettuali sviamenti le accuse di Beatrice nel canto XXX. Anche è a rigettare la opinione del Bartoli, perchè le due accuse (due sono certissimamente) vuol ritrovare a un tempo nel canto XXX; e perchè il fallo intellettuale di Dante ripone nell'amore della filosofia, in generale, onde quegli fosse distratto dal suo proposito di celebrare Beatrice. O, per dire altrimenti, nell'indugio posto da Dante ad adempir la promessa. Ma un indugio, per sé, non è colpa, se la cagione di esso non è cattiva: e in quel caso era buona, cioè l'amore della filosofia cri

stiana, l'acquisto d' ogni maniera di scienza. La qual cosa appunto dovea esser mezzo all'impresa; come Dante s'era proposto, e Beatrice sapeva (1). Ed è strano parlar d'indugi, quasichè al poeta si possa prescrivere un termine, sopra tutto in opera di gran mole e difficoltà; e quasichè il non recare in atto prestamente una tale opera, possa essere senza un assiduo meditarla e volerla (2). Più logicamente il D'Ancona, l'oblio di Beatrice ritrova nel Convivio: ma ho dimostrato che questo è un libro in tutto ligio a Beatrice, donna e teologia. Concludendo, il mio giudizio è questo: che due son le accuse di Beatrice al poeta, e due le colpe in costui, diverse per lor natura e distintamente significate; l'una nel canto XXX, l'altra nel XXXIII. Gravissima l'una, e veramente cagione dello smarrirsi di Dante nella selva oscura; l'altra assai lieve. E fu l'una, ch'egli, morta Beatrice, si diè in preda a vani o disonesti amori donneschi; l'altra, che ei tenne in pregio ed amò, non la filosofia in generale, ma un certo sistema di idee filosofiche (l'aristotelico) che, non corretto dalla teologia cristiana, può trarre in errore. Non che egli fosse tratto in errore; o che pigliasse in dispregio la teologia, e gli paresse dubbia o molto o poco. Ma, tutto intento a studî profani, lasciò stare la sacra dottrina: onde era a rischio di errare. Non vide il rischio, o non lo teme: e nello intrico, maraviglioso

(1) Vita Nuova, XLII « E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com'ella sa veracemente ».

(2) Che Dante meditò il suo poema, e vi si affaticò lungamente, ci è detto anche in quei versi del Par. (c. XXV, 1-3:

Se mai continga che il poema sacro,
Al quale ha posto mano e cielo e terra,
Si che m'ha fatto per più anni macro....

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