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pace con Pisa e vi rientrò, quivi credendosi malsicuro, riparò poscia ne'suoi dominii di Sardegna, ove morì nel 1295, non senza aver contratto la macchia grave per la sua fama di essersi renduto cittadino di Genova, e avere oprato quanto era in lui, in un co' Genovesi e i malcontenti Pisani, a, danno della abbandonata sua patria.

Tornati a primeggiare i ghibellini in Pisa, gli odii contr'essa delle città guelfe rinfocolarono, e tratto tratto guerre si rinfrescavano, seguitate da paci che erano brevi tregue. Pace regnava tra Firenze e Pisa nell'anno 1308, e lettere molto affettuose l'un Comune indirizzava all'altro in questo medesimo anno. Sennonchè di quei giorni appunto, colta occasione dalla presenza in Toscana di ambasciadori mandati per mendicarvi aiuti da Iacopo re di Aragona e signore di Catalogna, Fiorentini e Lucchesi cominciarono a ordire quella tela, che in processo di tempo abbassò più sempre la potenza di Pisa, inviando a re Iacopo una ambasceria per istigarlo a correre sopra le italiane isole di Sardegna e Corsica, e promettendogli buon polso di denaro acciò le rendesse cațalane, e l'emula città ne fosse spogliata. Malvezzo, che tra noi non fu il primo, e tolga Iddio non sia l'ultimo! Nè gli stimoli e le occasioni alla mala opera mancavano ai Fiorentini.

Esulava dai paterni dominii, ereditati in Sardegna e dai Pisani occupati, Giovanna figlia di Nino Visconti sì caro ai Fiorentini, e viveva allora in Bologna con la madre sua Beatrice d'Este, cui la fortuna non facea viso più lieto. Erasi ella rimaritata nell'anno 1300 in Galeazzo Visconti di Matteo signore di Milano; il quale, cacciatone poco dopo in un coi figli dai Torriani, aspettava sempre con accorta rassegnazione il momento della riscossa; onde Beatrice non poteva davvero ripromettersi di que' giorni, che sì bella sepoltura fosse per farle la vipera di Milano, « Com'avria fatto il gallo di Gallura ». Nè la Beatrice potea tampoco avere stanza con la figlia nella natìa Ferrara; conciossiachè, morto in quest'anno Azzo VIII di lei fratello, gare sì sconce sursero tra gli Estensi per la successione in quella signoria, che la città ne andò tutta sossopra, e cadde finalmente in podestà del Romano Pontefice. Sposare adunque la causa della giovinetta figlia di Nino, era pel Comune di Firenze egregio pretesto, e di pietà adombrato, per procacciare nuovi danni a Pisa; nè senza molta sagacità sceglievasi Iacopo re di Aragona, come strumento il più acconcio per aiutare

Giovanna, e sfogare gli odii inveterati, con buona sodisfazione di tutti.

Iacopo era già stato re di Sicilia, e di ben gravi percosse avea menate agli Angioini di Napoli, come più fiere le avea già date il padre suo re Pietro, che nella loro vece s'insediò in Sicilia, e in lunga prigionia ebbe tenuto l'Angioino principe che poi fu re Carlo, secondo di questo nome. Ma quando il primogenito suo fratello Alfonso, che sciolte avea le catene di Carlo II, mancò di vita, Iacopo, lasciato come a vicario il reame della Sicilia all'altro fratel suo Federigo, volò a succedere nel regno di Aragona e nella contea di Barcellona e Catalogna; rinunziò dipoi Sicilia a re Carlo II, ne sposò la figlia Bianca, diè in moglie a Roberto, duca di Calabria e figlio di Carlo, sua sorella Jolanta; e siccome, affinchè renunziasse a Carlo Sicilia, ebbe ottenuto da Bonifacio VIII la vana investitura delle isole di Sardegna e Corsica (a. 1297), giunse perfino ad aiutare il suocero contro il fratello Federigo, che i Siciliani da lui derelitti avevano coronato re: per le quali cose tutte era venuto Iacopo in somma grazia della stirpe Angioina e della parte guelfa in Italia, che si teneva stretta ai reali di Napoli. E più vi si teneva stretta Firenze, che nelle gare con Pisa ed altri ghibellini di Toscana volle a supremo condottiero il mentovato figlio di Carlo II, Roberto Duca di Calabria, il quale combattè più anni per essa con le sue masnade, capitanate sulle prime da lui medesimo, ed ora da don Diego della Ratta, catalano, suo maliscalco, e tra le quali i fanti Aragonesi e Catalani di re Iacopo («< capestri da forca » dice il Muratori) primeggiavano per valore feroce. Incitare adunque il re Aragonese a impadronirsi di Sardegna in detrimento dei Pisani, e affinchè Giovanna di Gallura tornasse nel possesso dei paterni dominii, era tale atto da non riuscire sgradito ai reali di Napoli; i quali in caso di buono evento ne avrebbon côlta giusta cagione per istrignere quel re ad aiutarli più gagliardamente a racquistare Sicilia; onde mi penso che della ambasceria non fossero tenuti all'oscuro, come nol furono per fermo Sanesi e Bolognesi (Serie I dei Documenti, N.° 3 e 14). Sennonchè i Pisani, avuto sentore di que' maneggi, riuscirono pel momento a stornare dal capo loro si grave tempesta, con dare più generoso aiuto a quel re nella guerra infelice che combatteva contro i Mori di Granata; tempesta che non si scaricò in Sardegna se non se nell'anno 1323, nel quale Alfonso, il figlio di re Iacopo,

con sì prospera fortuna corse quell'isola, che della antica signoria non restò al Comune di Pisa se non due o tre minori terre in

feudo dipendente da quella corona, e senza che a Giovanna si rendessero i paterni dominii.

Ma se il disegno dei Fiorentini non potè colorirsi nel 1309, conciossiachè re Iacopo, implicato allora, come dicemmo, in disastrosa guerra coi Mori di Granata, provasse maggior bisogno di riparare dalle offese gli antichi suoi dominii, che non d' invadere gli altrui, ed a quel fine più a lui giovassero gli aiuti dei Pisani, tuttavia possenti per mare, che non l'oro dei Fiorentini e dei Lucchesi (1), nondimeno il mal seme sparso fruttificò più tardi, e la Nota che il Comune di Firenze dettava per istruzione de'suoi am. basciadori ne sembrò degna di venire in luce, sì perchè della maestria fiorentina nel condurre gli esterni negozi si avesse un saggio molto più antico di quelli mandati in, pubblico dal chiarissimo collega nostro Barone A. de Reumont, nel libro intitolato « Della diplomazia italiana »; e perchè si veda come infino di questi giorni, ed anzi già da un trent'anni, Firenze ne' suoi trattati con gli esteri mirasse precipuamente a procacciare franchigie e libertà di traffichi a'suoi mercadanti: onde gli ambasciadori a re lacopo, che dovevano accompagnarsi ai Lucchesi, logorarono in Lucca non poco tempo, perchè questo Comune non correva pronto ad assentire certe franchigie che da Firenze si domandavano. Ed a ragione così operava Firenze; avvegnachè la mercatura e la industria de'suoi cittadini ormai si stendessero assai lontano, e fossero doviziose e floride grandemente, come se ne ha riprova per altri documenti che stanno in questo Epistolario medesimo; due dei quali ci apprendono (Serie II), come i Fiorentini avessero in condotta la zecca di Alla (ed è la Sveva nel Wurtemberg) per concessione di Alberto imperatore (a. 1298-1308); e gli altri mostrano (Serie III), quali in patria recassero preziose merci, e libri anche più preziosi e rari di quelle, ne' giorni in discorso, posciachè gli stessi professori de' pubblici Studii penuriassero eziandio de'libri necessarii alla esposizione delle dottrine che insegnavano nelle scuole. E finalmente dai documenti che or si recano in luce molte notizie altresì scaturiscono intorno al giure statuto e al modo

(1) Vedi (in Archivio Storico) RoNCIONI, Istorie Pisane, pag. 670 e 672, con le egregie note cronologiche del Bonaini. VILLANI, Cronaca, VIII, 105.

di procedere in giudizio nelle cause mercantili, non che intorno alle condizioni economiche, pubbliche e private di que' tempi, come ben saprà rilevare la sagacità e dottrina de' nostri lettori.

Nè solamente queste, ma altre assai cose di considerazione degne soccorrono nel nostro epistolario o copialettere, che dal dì 17 di settembre del 1308, stendesi per infino al 21 di marzo 1309. Qui vedesi, ad esempio, come e quanto adoperassero gli ambasciadori delle città toscane di parte guelfa in Empoli, Fucecchio ec. pel comune vantaggio, e quanta condiscendenza e amorevolezza i Fiorentini mostrassero verso gli Aretini, affinchè la città loro tutta non precipitasse in mano dei ghibellini; come Firenze, con sua lettera dei 18 di settembre, imponesse alle comunità del Monte inferiore, e ad altre leghe di popoli a lei soggetti, di reverentemente uniformarlesi nelle misure d'ogni maniera e loro segni; quì stanno non meno di quattro lettere dei 25 di gennaio, dei 10 e 27 di febbraio e del 4 di marzo (1309) a Moroello Malaspina, l'ospite illustre di Dante Alighieri; qui, finalmente, notabilissime, siccome indizio di timore penoso, le lettere dal Comune inviate il 3 e il 5 di ottobre alle leghe del Chianti ec., acciò venissero in forza a Firenze per appoggiare la Signoria nei moti, che, se non ci stesse contro l'autorità e il rispetto dovuto a Dino Compagni, risolutamente crederemmo insorti a causa di Corso Donati; spento il quale, vedesi nel dì 6 di ottobre disdetto con altre lettere quell'invito (1). Ma di queste ed altre più cose del nostro Epistolario, che, se non andiamo errati, è il più antico di quanti oggidì rimangano della repubblica fiorentina, ci tratterremo ad esortare che vogliano far tesoro i tanti e di noi più dotti investigatori delle storie d'Italia.

Li 31 di Agosto 1857.

(4) V. la seguente NOTA.

P. CAPEI.

NOTA.

Dei fiorentini cronisti, tre sono quelli i quali segnano in vario modo il giorno, il mese e l'anno in che fu spento Corso Donati. Dino Compagni, dopo aver narrato la strage nel giorno istesso intervenuta di Gherardo Bordoni, il tristo partigiano di Corso, afferma che questi « morì a' dì 15 di settembre 1307 ». Simone della Tosa, cronista contemporaneo anch'egli, ha l'anno 1308 al pari del Villani, seguitato dall'Ammirato, dal Muratori ec., e scrive << a dì 8 di novembre fu morto..... Corso de' Donati, e « Gherardo Bordoni » (V. MANNI, Cronichette antiche, pag. 159; Firenze 1783). Finalmente nella Cronaca d'incerto autore, ma di pochi anni posteriore a Dino e Simone, posciachè non va oltre l'anno 1389, sotto l'anno 1307 leggesi: « Del mese di ottobre Corso Donati fu << cacciato dal popolo di Firenze.... e.... morto » (ibid., pag. 174). Così in Dino come nello incerto autore è l'anno senza fallo sbagliato e dello errore vogliono chiamarsi in colpa (e quanto a Dino lo vedrem più sotto) i testi a penna scorretti che ne rimangono seguitati dagli editori. Resta pertanto che, tenuto fermo con la comune degli scrittori l'anno 1308, si appuri il mese ed il giorno. Vedemmo che Dino ha il dì 15 di settembre. Ma Dino medesimo ci narra, che morto Corso « la gente cominciò a riposare »; ed anco l'Ammirato scrisse, che nel resto dell'anno Firenze quietò. Solenne errore storico sarebbe or questo, chi ponga il tumulto e la morte di Corso Donati nel dì 15 di settembre; conciossiachè di altro moto gravissimo in Firenze nel dì 6 di ottobre, per cui molte persone furono carcerate e accusate (talchè non s'intende come potesse passarsi nel più alto silenzio da tutti quanti i cronisti), è parola nel tomo ottavo delle Consulte e Pratiche, a carte 32 (Archivio Centrale di Stato); ivi leggendosi : « 1308, die quarto intrante mensis No«vembris. Per dominum Potestatem, Priores Artium et Vexillife« rum, et Vexilliferos sotietatum populi facta fuit provisio in fa« vorem detentorum et accusatorum DE RUMORE HABITO IN CIVITATE « FLORENTIA DIE VI OCTOBRIS » Messo adunque in disparte Simone, perchè, se rispetto all'anno ha la data vera del 1308, egli è poi smentito quanto al giorno degli 8 di novembre per altro documento da rammentare in seguito; ragion vuole che diasi fede

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