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gloria vana, perchè la vede sanza discrezione. Questi sono da chiamare pecore, e non uomini (1): chè se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l'altre l' andrebbono dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d' una strada salta, tutte le altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. E i' ne vidi già molte in uno pozzo saltare, per una che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro; non ostante che il pastore, piangendo e gridando, colle braccia e col petto dinanzi si parava. La seconda setta contro a nostro Volgare si fa per una maliziata scusa. Molti sono che amano più d' essere tenuti maestri, che d'essere; e per fuggire lo contrario, cioè essere tenuti, sempre danno colpa alla materia dell' arte apparecchiata (2), ovvero allo stromento; siccome il mal fabbro biasima il ferro appresentato a lui, e 'l mal cetarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonare al ferro e alla cetera, e levarla a sè. Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l'uomo li tenga dicitori; e per iscusarsi dal non dire, o dal dire male (3), accusano

di non

(1) Similitudine usata anco nel Poema; e se ne faccia paragone pel diverso modo di dire d'un prosatore e d'un poeta. P. Quantunque

il brano del C. 3. v. 79 e segg. del Purgatorio sia notissimo, lo trascriviamo qui per comodo de' nostri lettori che non l'avessero a mente:

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Come le pecorelle escon del chiuso

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(2) Intendi: Alla materia che è apparecchiata per operare l'arte.

(3) Intendi: Per iscusarsi del non usare punto, o dell' usare malamente

la grande abilità di dire che vogliono dagli altri creduta in sè.

e incolpano la materia, cioè lo Volgare proprio, e commendano l' altro lo quale non è loro richiesto di fabbricare (1). E chi vuole vedere come questo ferro (2) è da biasimare, guardi che opere ne fanno i buoni artefici, e conoscerà la malizia di costoro che, biasimando lui, si credono scusati. Contro a questi cotali grida Tullio nel principio d' un suo libro, che si chiama libro Di fine de' beni; perocchè al suo tempo biasimavano lo Latino romano, e commendavano la gramatica greca (3). E così dico per somiglianti cagioni, che questi fanno vile lo parlare italico, e prezioso quello di Provenza. La terza setta contro a nostro Volgare si fa per cupidità di vanagloria. Sono molti, che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella credono più essere ammirati, che ritraendo quelle della sua. E sanza dubbio non è sanza lode d' ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre la verità, per farsi glorioso di tale acquisto. La quarta si fa da un argomento d' invidia. Siccom' è detto di sopra, la invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra gli uomini d'una lingua è la paritade del Volgare; e perchè l' uno quella (4) non sa usare come l'altro, na

(1) Cioè, di comporre, d' informare.

(2) Parla allegoricamente, e nell' idea del ferro intende il volgare; e ne' buoni artefici, probabilmente solo sè medesimo.

(3) Il Biscioni legge questo e il seguente periodo tutto in un corpo, a questo modo: commendavano la gramatica greca; per somiglianti cagioni, che questi fanno vile ecc. Ora a me sembra che le idee n'abbiano più lodevole connessione ed ordine più felice.

(4) Se la lettera fosse sicura, bisognerebbe intendere, non quella lingua, perciocchè lingua non può qui servire ragionevolmente, che nell'unico valore di nazione; ben sì quella parità, che pure sarebbe un

sce invidia. Lo 'nvidioso poi argomenta non biasimando colui che dice di non sapere dire, ma biasima quello che è materia della sua opera, per torre (dispregiando l' opera da quella parte) a lui, che dice, onore e fama (1); siccome colui che biasimasse il ferro d' una spada, e non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l' opera del maestro. La quinta e l'ultima setta si muove da viltà d'animo. Sempre il magnanimo si magnifica in suo cuore; e così lo pusillanimo per contrario sempre si tiene meno che non è. E perchè magnificare e parvificare sempre hanno rispetto

parlare forzato e molto oscuro. Io però credo per fermo, che Dante scrisse quello, cioè, il volgare.

(1) Chi guarda questa parte del periodo da sè sola, non la può veramente condannare per mancante di sentimento; ma forse gli parrà che la struttura non dia molto a riconoscervi la mano di Dante. Perciocchè l'azione dell' invidioso è prima cominciata a significare col verbo argomentare, e poi contro il buon metodo del discorso e con grande abbassamento d'espressione, è seguitata col verbo biasimare. Se non che, a me pare, il valore del verbo argomentare dev' essere qui determinato dal sostantivo argomento, che esprime appunto l' uno degli estremi nella proposizione, alla quale serve il discorso presente, e il quale e per natura e per l'attuale posizione delle cose è strettissimamente legato ad esso verbo. Ora poichè argomento, come notai, vale, non raziocinio, ma invenzione, trovato o simile, e questo è fuor di dubbio; anche argomentare dee valere, non raziocinare a fine di persuadere altrui, ma pensare, discorrere seco stesso. Se questo è vero, posto che ne va perduta la prima intelligenza delle parole, viene la necessità d' alcuna mutazione. Allora io penso che si dovrebbe scrivere biasimando, invece di biasima; pur torre invece di per torre: e con ciò s' intenderebbe subitamente che l'invidioso argomenta, cioè, ragiona seco stesso, che senza biasimare d' incapacità il dicitore, la qual cosa potrebbe manifestare il suo mal animo, ma solo biasimando la materia della sua opera, cioè la lingua, arar-' riverà niente di meno a togliergli onore e fama: e così fatto è il divisamento dell' invidioso, come sarebbe quello di colui che biasimasse il ferro ecc. Intanto tutta la condizione del ragionamento ne guadagnerebbe tale atto, da essere ben degna di rappresentare in bocca dell' Allighieri la perfida sottilità degl' invidiosi.

ad alcuna cosa (1), per comparazione alla quale si fa lo magnanimo grande, e il pusillanimo piccolo, avviene che 'l magnanimo (2) sempre fa minori gli altri che non sono, e il pusillanimo sempre maggiori. (3) Perocchè con quella misura che l'uomo misura sè medesimo misura le sue cose, che sono quasi parte di sè medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose sempre pajono migliori che non sono, e l' altrui meno buone; lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l'altrui assai. Onde molti per questa viltà dispregiano lo proprio Volgare, e l' altrui pregiano; e tutti questi cotali sono gli abbominevoli cattivi d'Italia, che hanno a vile questo prezioso Volgare, lo quale se è vile (4) in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri; al cui condotto vanno li ciechi, delli quali nella prima cagione feci men

zione.

CAPITOLO XII.

Se manifestamente per le finestre d' una casa

uscisse fiamma di fuoco, e alcuno domandasse se là entro fosse (5) fuoco, e un altro rispondesse

(1) Dello stesso genere, o meglio, della stessa specie. (2) Comparandosi agli altri uomini.

(3) Pare evidente che innanzi l'avverbio perocchè, debba essere perduto un' E, la quale copulasse questa che viene colle parti antecedenti del ragionamento. Sicchè io scriverei: E perocchè quelle ecc.

(4) Ammira quanto sono bene armonizzati insieme lo sdegnosissimo concetto, e le parole.

(5) Là entro fosse fuoco, cod. Vat, Urb. Gli altri testi mss. e stampati: là entro fosse il fuoco; lezione che non è la migliore. E. M. La bella e filosofica frase, essere il fuoco in alcun luogo, vale nella

a lui di sì, non saprei ben giudicare qual di costoro fosse da schernire più. E non altrimenti sarebbe fatta la domanda e la risposta di colui e di me, che mi dimandasse se amore alla mia loquela propia è in me, e io gli rispondessi di sì, appresso le su proposte ragioni. Ma tuttavia è a mostrare che non solamente amore, ma perfettissimo amore di quella è in me, e da biasimare (1) ancora i suoi avversarii. Ciò mostrando, a chi bene intenderà dirò come a lei fui fatto amico, e poi come l'amistà è confermata. Dico che ( siccome veder si può che scrive Tullio in quello d' Amicizia, non discordando dalla sentenzia del Filosofo aperta nell' ottavo e nel nono dell' Etica) naturalmente la prossimitade e la bontà sono cagioni di amore generative; il beneficio, lo studio e la consuetudine sono cagioni d' amore accrescitive (2). E tutte queste cagioni vi sono state a generare e a confortare l' amore ch' io porto al mio Volgare, siccome brievemente io mostro.

nostra lingua a significare, come tutti sappiamo anche lombardi, che quel luogo sia preso dall' incendio. Posto ciò, se della casa imaginata da Dante alcuno domandasse s'ella è incendiata, farebbe una domanda scempia, perocchè in cosa evidente; ma che sarebbe pure in ogni parte somigliante alla domanda a Dante, s'egli ama la sua loquela. Ma se quel tale domandasse se in quella casa v' ha del fuoco qualunque, farebbe una domanda troppo stolta, e la quale, per eccesso, si dissomiglierebbe non poco dall' altra colla quale si vuole paragonare. Su questa considerazione adunque io crederò che la migliore di queste due lezioni sia appunto quella, che dai Sigg. E. M. fu giudicata non migliore. (1) Cioè, rimane ancora da biasimare.

(2) Poni mente a questa sentenza, perocchè l' A., senza altro, la pone per fondamento di tutti i raziocinii di questo capo e del seguente. Così gli basterà dimostrare che il volgare è stato prossimo a lui, che ha bontà in sè, che gli è stato benefattore ecc., e ne verrà via via conchiudendo non essere a lui mancato niuna delle cagioni che potevano generare ed accrescerne l'amore.

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