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Leggendo però le risposte che i poeti del tempo, come Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia, Dante da Maiano, Chiaro Davanzati, Guido Orlandi e più altri diedero a questo sonetto, resteremo convinti, che non si tratta di una profezia dopo l'evento, come sono quelle della Commedia, ma di un vero presentimento, fondato per avventura sulla delicatezza della salute di Madonna Beatrice. Simili presentimenti ricorrono nelle due prime. Canzoni.

La Prosa sarà di data più recente. Non crederei però che sia scritta tutta di seguito. Si conosce dai cap. 5 e 6 che l' aut. non raccolse le sue Rime, scegliendone le une e rigettando le altre, che qualche tempo dopo che furono composte. Sembra probabile ch' egli abbia ripreso questo lavoro da tempo in tempo, aggiungendovi per volta la concernente parte del Commento. Ancora al tempo del cap. 42 la raccolta non era definitivamente terminata. In ogni modo però il cap. 31 ci fa supporre che tutta l' opera lo sia stata vivente Guido Cavalcanti, cioè nel 1300.

Come nel Canzoniere del Petrarca, così anche nelle Rime di Dante due parti principali s' intendono senz' altro: cioè Poesie composte in vita di Beatrice, e quelle in morte di essa. Con finissimo accorgimento però fu dimostrato dal D' ANCONA due periodi essenzialmente diversi dover distinguersi in quella prima parte:1 l'uno che comprende i primi sedici (o diciasette) capitoli, e l'altro che dal cap. 17 (oppure 18) arriva fino al ventesimo ottavo. Ma rendiamo le proprie parole di quell'illustre editore: «D' ora innanzi vediamo la mente

1 Egli è vero che nelle già sopra citate «Annotazioni » pag. 5, avevo indovinato questa differenza; ma ben lungi dall' intenderne la somma importanza, non me n'era servito che per fondarvi sopra una divisione subordinata.

di Dante e l'affetto staccarsi dalla terra e innalzarsi alle cose eterne, e intanto la poesia diventare, con nuovo esempio contemplativa, ascendendo al cielo a udirvi le preci degli Angeli a Dio, e discendendo all' Inferno a udirvi le grida dei malnati. D'ora innanzi Dante non cerca più Beatrice, perch' ei ne ha ben fitta la immagine dentro l'anima sua: alla contemplazione corporea degli occhi succede la segreta contemplazione dell' intelletto: ei non trema più, non piange più, perchè si sente beato in quella intima adorazione: il saluto che dianzi era intollerabile beatitudine la quale passava e redundava la sua capacità, diviene dolcezza onesta e soave: il fine dell' amore non è più la vista di Beatrice, ma la lode. . . . . Così incomincia nella V. N.... quella che Dante, quasi vergognando degli intendimenti contenuti nelle rime anteriori, chiama materia nova e più nobile che la passata, e comincia insieme una maniera di poesia della quale egli sarà salutato inventore e maestro (Purgat. XXIV, 48). Nelle antecedenti rime troviamo, infatti, un misto non bene accordato di reminiscenze provenzali e sicule. D' ora innanzi, Dante procederà per la sua via, colle sue forze, collo stile suo, col fine suo da raggiungere: dirittamente, consapevolmente, innovando, e coll' intento ben chiaro e determinato di innovare le vecchie forme della poesia erotica.»> Le altre sottodivisioni s' intenderanno facilmente dalla nostra tavola. L' infima di esse non è indicata nei testi a penna che per capoversi. Il primo a distinguerle per numeri apposti fu il TORRI. Applicandovi l'ultimo detto della prima di queste sottodivisioni (« quelle parole, le quali sono scritte nella mia memoria sotto maggiori paragrafi ») egli credè dover chiamarle « Paragrafi ». Non mi sembra però che questo nome corrisponda alle intenzioni dell' autore. Nelle altre sue

opere, come nella Monarchia, nel Convivio ecc. Dante stesso chiama «Capitoli» le sottodivisioni dei libri ossia dei trattati. Capitoli ancora da non pochi antichi sono detti li Canti della Commedia, e non si vede perchè l' aut. dovesse aver scelto pel presente libretto, il più semplice di tutti i suoi componimenti, un altro termine, termine che ricorda un po' troppo la pedanteria degli Scolastici. Questi maggiori paragrafi», ossia rubriche, non vogliono dir altro, che: oggetti di maggiore importanza a paragone delle altre che infino a quel punto si trovavano registrate nel libro della memoria dell' autore. Si è dunque restituito il nome di «CAPITOLI» a quello tutto arbitrario di paragrafi. Considerando però che nel cap. 29, l'autore dice: «< ciò non è del presente proposito, se volemo guardare il PROEMIO, che precede questo libello», non si è creduto dover far entrare questo proemio nella numerazione dei capitoli. Ma non volendo allontanarci troppo dai numeri, sull' esempio del Torri, ricevuti in tutte le edizioni moderne, il paragrafo 3 di esse fu da noi diviso in due capitoli, talmente che il terzo comprende esclusivamente la prima visione. La differenza fra la nostra numerazione e la sin qui usitata si limita dunque ai così detti paragrafi 1 e 2, comprese le prime righe del §. 3, che nella presente stampa si chiamano: Proemio, e capit. 1 e 2.

La «Serie delle edizioni » riferisce i modi ben differenti tenuti dagli editori a riguardo delle « divisioni». Ch' esse siano parto genuino di Dante, destinato a far parte integrante dell' opera, è cosa tanto certa che non avrebbe dovuto mai esser messa in dubbio. Questo modo di dividere un testo da commentarsi, massime un testo poetico, è nell' uso universale di tutti i commentatori del tempo. Lo troviamo nel proprio commento

DANTE, Opere minori. I.

b

di Dante alle Canzoni del Convivio, come nell' epistola dedicatoria a Cangrande. Lo adoperano gli antichi commentatori della Commedia, il Laneo, l' Ottimo, l' Anonimo Fiorentino, Benvenuto da Imola e Francesco da Buti. Anche il contesto della V. N. fa vedere che non solamente Dante stesso ne sia l'autore, ma pure che le voleva innestate nel testo come parte di esso, di modo che, chi credeva dover rigettarle intieramente, oppure trasporle altrove, non poteva far a meno, di alterare arbitrariamente qualche parola del testo indubitato. Servino d'esempio la fine della Prosa che precede la prima Canzone (cap. 19) e tutto il cap. 39. Altre volte, come nel cap. 34, quegli stessi si videro nella necessità di esser infedeli al loro sistema, amettendo nel testo una parte della divisione. Si aggiunga che l'aut. stesso, dicendo nel cap. 22. « Acciocchè questa canzone paia rimanere vie più vedova dopo il suo fine, la dividerò prima ch' io la scriva: e cotal modo terrò da qui innanzi», indica chiaramente il posto che nella prima parte dell' opera aveva dato, e che nella seconda voleva dare alle divisioni. I codici manoscritti non sono veramente concordi, ma i migliori e i più antichi hanno le divisioni ai rispettivi posti che l' aut. aveva assegnato ad esse. Le notizie che abbiamo di sei testi a penna da noi enumerati, non bastano per accertarci, se le divisioni vi si trovino o nò. Degli altri sedici sette ne sono mancanti; ma nove, e tra esse i più antichi le danno ai luoghi dovuti. Ben grave è dunque l'errore del KEIL, se afferma che in tutti i manoscritti, eccettuatone un solo, le divisioni manchino. Del resto non ignoriamo la cagione per cui alcuni amanuensi omisero quelle divisioni. Ecco quanto una nota contemporanea del cod. Laurenziano Plut. XC. sup. No. 136, pubblicata dal BISCIONI, e più correttamente dal MEHUS nella

Vita di Ambrosio Camaldulense, p. CLXXV, ci dice a questo riguardo:

<«Scripto per lo modo chello scripse messere gio-
uanni Boccaccio da certaldo però che Dante le
chiose che ci sono mise nel testo, et messere gio-
uanni nelle cauò et aconciolle come stanno la cagione
assegna in una chiosa di questo libretto che dice:
marauiglerannosi molti per quello che io auuisi
perchè io le diuisioni de' sonetti non ho nel testo
poste come l'autore del presente libretto le pose.
Ma a ciò rispondo due essere state le cagioni. La
prima perciocchè le diuisioni de' sonetti manifesta-
mente sono dichiarazioni di quegli, perchè piuttosto
chiose appaiono douere essere che testo, e però
chiosa l'ho poste non testo, non stando l'uno
coll' altro bene mescolato. Se qui forse dicesse
alcuno, e le teme de' sonetti e canzoni scritte da
lui similmente si potrebbon dire chiosa conciossia
cosa chesse sieno non minore dichiarazione di
quelli che le diuisioni, dico che quantunque sieno
dichiarazioni, non sono dichiarazioni per dichiarare,
ma dimostrazioni delle cagioni che a fare lo adusse
i sonetti e canzoni. E appare ancora queste di-
mostrazioni essere dello intento principale, per che
meritamente testo sono e non chiose. La seconda
ragione è che secondo ch' io ho già più uolte
udito ragionare a persone degne di fede auendo
Dante nella sua giouanezza composto questo libretto,
e po' essendo col tempo nella scienza e nelle ope-
razioni cresciuto, si uergognaua auer fatto questo
parendogli opera troppo puerile, e tra l'altre cose.
di che si dolea d'auerlo fatto si rammaricaua d'auere
inchiuse le diuisioni nel testo, forse per quella
medesima ragione che muoue me.
Laonde io non

b*

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