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ricordevole di questo avvenimento, non abbia voluto cogli altri tre oratori ricevere anche il Da Ponte. Comunque sia (1), il da Ponte, resosi sempre più benemerito verso la patria, ai 30 di luglio 1570 fu eletto Procuratoré di slieri s'adoperò molto in Bergamo per formare il processo contro quel vescovo; ma che molto più s'adoperò in Roma, per rispetto della Repubblica e del patriarca Grimani, e per causa dell'opposizione che trovò negli ambasciatori della Repubblica che difendevano il vescovo e la giustizia del Patriarca; in modo che il Ghislieri sin d'allora si persuase che nella Repubblica veneta non fosse quel zelo di religione cattolica, nè quel rispetto verso la Sede Romana, e la persona sua propria, ch'egli vi avrebbe desiderato.

(1) Pare però certo che il motivo ne fosse l'incolpazione di eresia data al da Ponte. Stanno infatti nei codici di Emanuele Cicogna due documenti di scrittura di quel tempo, che lo comprovano. Il primo è un dispaccio del suddetto Paolo Tiepolo da Roma, in data dei 16 febbraio 1565, cioè 1566 a stile comune; l'altro è una ducale dei 23 marzo 1566 allo stesso Tiepolo. Nel dispaccio, dopo aver detto che il papa non volle accettare il Da Ponte, soggiunge di aver pregato due cardinali a farsi mediatori di questo affare. Fattone l'ufficio, riferirono al Tiepolo: essere impossibile il mutare la mente del papa « perchè ( dicevano) nelle cose di Religione di questa natura, egli pensa di saperne più degli altri, e di non aver bisogno di consiglio; e dove prende una deliberazione per bene, si ferma; nè ragione di stato, nè qualsivoglia cosa è per rimuoverlo; e lascierebbe piuttosto rovinare il mondo, che mutarsi d'opinione: anzi, diceva uno delli detti cardinali, che lo conoscea tale, che dove si affissava in queste opinioni, saria per sostenerle stato uomo da assalir solo un esercito intiero che fosse contra di lui: sperando che, avendo buona imtenzione, Dio lo dovesse aiutare. » Uno dei detti cardinali riferì ancora al Tiepolo, di avere per cotale raccomandazione avuto un rabbuffo dal papa; perchè essendo esso cardinale all' Inquisizione, osasse parlare in favor del Da Ponte: che quindi trovò il Pontefice inesorabile ed invincibile; che si potrà far figurare ammalato il Da Ponte, ed usare qualche altro termine per mostrare al mondo di avere diversa causa di non mandarlo; che sua Santità disse al cardinale molte cose intorno al Da Ponte, le quali, per essere esso cardinale alla Inquisizione, non può ripetere senza incorrere la pena della scomunica comminata dal papa a chi ne svela i segreti; che il papa però non chiama eretico il Da Ponte, ma però tale che avesse bisogno di purgazione; che ciò che più offendeva il papa era qualche termine usato dal Da Ponte nella cosa del vescovo Soranzo, che fu la maggior impresa del papa, e quella che lo fece fare prima Inquisitore, poi cardinale, e finalmente pontefice. Aggiungeva il Tiepolo, che l'altro dei cardinali suddetti gli mandò a dire: « essere cotanto fermo il papa, da non potersi volgere; che il papa a quel cardinale aveva nominato il Da Ponte per eretico; e che esso Tiepolo dalle parole udite si conferma nella opinione: « che la causa del mal concetto del papa contra il Da Ponte, nasca dalla cosa del vescovo Soranzo. »>

Il secondo documento, ossia la ducale al Tiepolo, premessa la doglianza che il pontefice non abbia voluto accettare il Da Ponte, ingiunge all'ambasciatore di scoprirne la causa, e di giustificare l'innocenza del Da Ponte in faccia al pontefice; dicendogli: « che il suddetto Nobile, per lo spazio di settantatrè anni di vita che ha, è vissuto cattolichissimamente, ed è nemico mortale degli eretici: » e che in tempo delle sue legazioni a Roma, non è succeduta la fuga di quell'eretico. (Questi è forse quel Giorgio Medaga o Modaga, principale eretico nominato nella relazione di Roma dello stesso Tiepolo, 1566, che la Repubblica fece levare per forza dalle prigioni del Convento di S. Domenico di Bergamo, ove erano detenuti gli imputati di eresia; e ciò con gran pericolo dell'Inquisitor Ghislieri e dei frati).

San Marco, in luogo di Matteo Dandolo. Durante questa dignità, fu nel 1571 fatto nuovamente Riformatore dello Studio di Padova; e nel 1572 con Vincenzo Morosini, Andrea Badoero e Paolo Tiepolo, ambasciatore di obbedienza a Gregorio XIII per la sua assunzione al pontificato. Allo stesso Gregorio tornò ambasciatore straordinario ai 20 d'aprile 1573, per giustificare la Repubblica della pace fatta con Selimo imperatore dei Turchi; al quale ufficio sodisfece il Da Ponte con tanta prudenza, che non solamente gli riuscì di placar l'animo di Gregorio soverchiamente commosso, ma eziandio a persuaderlo della giustezza delle ragioni che mossero il senato veneziano a quella pace. Nel 1574 fu uno dei Procuratori deputati dal senato a portare l'ombrello ad Enrico III re di Francia, venuto a Venezia. Il quadro che ciò rappresenta, sta nella sala detta delle Quattro Porte nel palazzo ducale, di mano di Andrea Vicentino. Nell'anno medesimo 1574, fu il Da Ponte per la terza volta Riformatore dello Studio di Padova; poi del 1575 ancora Savio del Consiglio; e finalmente ai 19 marzo 1578 fu eletto a doge di Venezia. Il suo reggimento fu molto pacifico e fortunato, come si può veder dalle storie. Regnò il Da Ponte anni sette, mesi quattro, giorni undici, e passò all'altra vita ai 30 di luglio 1585, d'anni novantaquattro.

Oltre la serie dei Dispacci al Senato ed altre scritture pubbliche del Da Ponte, parte delle quali stanno nell'Archivio generale, e parte era nella libreria della famiglia ed altrove, si ha traccia di alcune cose da lui composte, ma non si sa, se, e dove oggidì sussistano. Esse sono:

la Orazione ad Egidio da Viterbo, detta nella Chiesa dello Spirito Santo, per congratularsi a nome del Senato della sua assunzione al Cardinalato. (1517)

lla Orazione funebre a Girolamo Adorno ambasciatore di Carlo V in Venezia. (1523)

Illa Orazione latina a Bona Sforza, regina di Polonia, per la sua venuta a Venezia. (1556)

IVa Orazione tenuta ai Padri del Concilio di Trento. (1561)

Va Trattato contenente alcune cose intorno alla Chiesa di S. Marco (citato dal Foscarini a pag. 173 della Letteratura Veneziana. )

Via Alcune opere geometriche, una delle quali intitolata la Squadra mobile (citata dall'Alberici, pag. 64)

Tre altre poi ne abbiamo nei manoscritti senza nome, ma che pure con giustissimo fondamento possono considerarsi per sue.

La prima è: « Discorso sopra la pace fatta dai Veneziani col Turco dopo la guerra di Cipro nell'anno 1573 ». Quest'operetta analoga a quella che ne dettò Paolo Paruta, è attribuita al Da Ponte in un codicetto del secolo XVI, già posseduto dai patrizii Balbi, ora da Emanuele Cicogna, col numero DCCCCI. Altre copie di questo discorso, ed anche con diverso titolo, trovansi in parecchie librerie veneziane. Che poi il suddetto Discorso venga giustamente attribuito al Da Ponte, si può anche dedurre da ciò, ch'egli ebbe in quest'affare moltissima parte, e che fu inviato, come si è Vol. VII.

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detto, al Papa nel 1573, per calmarlo nell' agitazione in cui era per la conclusione di detta pace.

La seconda è: Somma del maneggio della pace tra la Signoria di Venezia, Clemente VII, Carlo V imperatore, Ferdinando suo fratello, re di Boemia, e Francesco Sforza duca di Milano, trattata e conclusa in Bologna nel MDXXIX: codicetto del secolo XVI, cartaceo, nella collezione del Marchese Gino Capponi, che il signor Tommaso Gar, da più confronti e dalle parole stesse dello scrittore, ritiene lavoro originale ed autografo del doge Da Ponte.

La terza è: Discorso sopra lo scrivere a Roma per l'assettamento del pontefice col re di Spagna, tenuto in Senato da Niccolò Da Ponte, Savio del Consiglio, contro l'opinione di Domenico Morosini, ai 15 di novem bre 1556: in un codicetto presso il Marchese Capponi, che il Gar considera come originale ed autografo del Da Ponte.

Aveva Niccolò Da Ponte sposata, fino dal 1520, Arcangela figliuola di Alvise da Canale. Da essa ebbe due figli, Antonio e Paolina; dal quale Antonio nacque un Niccolò, che, morto nel 1590, fu l'ultimo della linea diretta del Doge. - Da Alvise poi o Luigi, uno dei fratelli del Doge, discende direttamente l'unico maschio che oggi viva di questa famiglia, cioè il nobile Niccolò Lorenzo Da Ponte, nato nel 1801.

In questo tempo, dovendo venire in Bologna Clemente VII sommo pontefice e Carlo V eletto imperator dei Romani, per abboccarsi insieme e trattare presenzialmente le cose che con lettere non avevano potuto risolvere, lo Stato nostro col consiglio di tutti gli ordini del collegio deliberò: che, avendo il senato fatto intendere al pontefice e all'imperatore, che in questo loro abboccamento si darebbe ampla commissione ovvero mandato in Bologna a M. Gasparo Contarini, oratore nostro in Roma, per concludere pace coll'imperatore; ed avendo al predetto collegio piaciuto assai tale deliberazione, fosse ora commesso all' orator Contarini che dovesse presentarsi al pontefice, e con la bontà e destrezza del suo ingegno introdurre la materia di Ravenna e di Cervia; supplicandolo, volesse lasciarci quelle due città, o almeno commutarle con una pensione da pagarglisi ogni anno: nel quale proposito non dovesse mancare di diligenza e di studio, talmentechè superasse sè stesso per ottenerle; dando subito avviso della risposta avuta. E perchè nel MDXXIII similmente si trattò di far pace coll' imperatore, la quale non ebbe effetto (1); li Savi dell' una e dell'altra mano, ec

(1) Di mala voglia e quasi astretti piegaronsi i Veneziani alla lega, promossa in gran parte da Adriano VI, e promulgata in Roma a'dì 5 di Agosto 1523. Alla repubblica di Venezia parve mal fermo l'accordo, e i prossimi eventi confermarono la di lei opinione. Vedi il Guicciardini, il Giovio, e la lettera di Girolamo Negro, nel T. I. delle lettere de' Principi.

cetti M. Girolamo da ca'da Pesaro e M. Francesco Veniero, Savi di Terraferma, alle precedenti lettere per istruzione dell' oratore aggiunsero le infrascritte, circa li capi trattati nel detto tempo. E prima gli ordinarono che, fuori della porta di Bologna, dove si ritrovava col pontefice, dovesse incontrare l'imperatore ch' ivi si aspettava, e per nome della Signoria fargli le debite e riverenti salutazioni, presentargli le lettere di credenza, iscusarla delle differenze avute seco nelli anni passati, occorse più presto per ingiuria dei tempi che per altra cagione. Dipoi gli scrissero che, se nel maneggio della pace gli agenti di Cesare dimandassero il restante delli ducati ducentomila, che allora gli furono promessi a ducati venticinquemila all' anno, servando l'onore e la riputazione della Signoria, dovesse assentire; e che la Repubblica si contentava di sborsare li cinquemila ducati all'anno promessi ai fuorusciti in cambio dei loro beni confiscati, se Ferdinando, fratello dell'imperatore, arciduca d'Au- ¡ stria, restituiva li luoghi nostri che ci occupa nella patria del Friuli (1); se veramente ricercassero ottantamila scudi per monsignor di Borbone, dei quali allora fu richiesta la Signoria, debba rispondere che ha ordine di non promettere cosa alcuna; e che le terre del reame di Napoli volentieri si restituiranno, seguendo la conclusione della pace. Ma se li cesarei, appresso alle cose dette, ricercassero alcun' altra,|| debba subito rescrivere avanti che si venga a conclusione: che se questi volessero separatamente negoziare alcuno dei capi della pace, non assenta, e metta ogni studio che in

(1) Le convenzioni particolari della lega summentovata fra l'imperatore ed i Veneziani erano state: che questi ultimi ritenessero le città e luoghi del loro dominio che possedevano di presente; che pagassero all' imperatore in compenso duecentomila scudi nello spazio di otto anni; che ricevessero in grazia quei sudditi che avessero seguite le parti di Cesare, e ad essi assegnassero cinquemila ducati di entrata perpetua, per indennizzo dei beni confiscati; si restituissero reciprocamente i luoghi occupati, e finalmente si pagassero a Cesare, conforme al trattato di Vorms, altri trentottomila ducati. La richiesta degli ottantamila scudi fu fatta da Cesare ai Veneziani più tardi.

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