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Segui messer Girolamo da Pesaro per la terza opinione e disse: « Signori eccellentissimi, le Signorie vostre sanno che nella informazione mandata a messer Gasparo Contarini vi è tra gli altri capi uno che gli ordina, che non tratti alcuno di quelli separatamente ma tutti insieme; onde se questa differenza di Ravenna e di Cervia fosse trattata a parte dalle altre, si contrafarebbe alla deliberazione del Senato. Poi non si deve nè si può comprendere dalle ultime parole di Cesare, che egli abbia opinione risoluta che queste città siano del Pontefice, come sanno Vostre Signorie; imperocche aveva detto nel fine dell' ultimo suo parlare, di voler mettere ordine che si desse principio al maneggio della pace, e circa alla differenza di Ravenna e di Cervia non aveva risposto; quasi dubbioso di chi dovessero essere. E però non si doveva così precipitosamente cedere; ma che era una gran disgrazia di questa Repubblica, che il pontefice fosse consapevole della intenzione di molti del Senato, i quali erano pronti per loro opinione a restituire le due città; e da qui era causata in gran parte la pertinace durezza sua, pensandosi alla fine di vincere e di restar superiore ». E qui fece leggere una parte delle lettere di messer Gasparo, che, ragionando di questa cosa col pontefice, come persona privata e servitore di Sua Santità, gli avea detto: « Padre Santo, io temo grandemente il pericolo delle forze turchesche, al quale non vedo, per la piccolezza del mio ingegno, altro rimedio, se non che i principi cristiani siano concordi, la qual cosa principalmente dipende dal pontefice; e perciò quando stesse in me, che io conoscessi non potermi conservare insieme cogli altri, senza la perdita, non dico di due ma di tre città, veramente vorrei più presto spogliarmi di quelle, che essere cagione che la Repubblica cristiana incorresse in così manifesto pericolo»: volendo inferire che Sua Santità, essendo pontefice e capo della Chiesa, non doveva, a beneficio della religione cristiana, tanto stimare queste due città

Vol. VII.

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che per quelle volesse interrompere così salutare effetto della pace. Dove il Pesaro notò: messer Gasparo per quelle parole aver favorito le ragioni di esso pontefice; quasi che messer Gasparo avesse voluto dire: Padre Santo, presupponiamo che le tue ragioni siano buone, come sono; ma non devi stimarle tanto, che tu non ceda le due città alla Signoria di Venezia; non per le ragioni pretese da quella, le quali pajono anche a me che siano di poca forza; ma per l'ufficio che appartiene a tua Santità di star concorde cogli altri principi in questi tempi pericolosi del Turco. Appresso fece leggere una lettera di messer Matteo Dandolo, scritta in Bologna e indirizzata a messer Marco suo padre, Savio del Consiglio, il quale aveva voluto che fosse letta in Collegio, come pertinente al beneficio della Terra. Scriveva dunque messer Matteo Dandolo che, essendo a visitazione del Cardinale Francesco Cornaro, gli era stato detto da lui: che non poteva fare che non si dolesse assai, che i Veneziani fossero tanto duri in questa cosa di Ravenna e di Cervia con Nostro Signore; il che, per suo giudizio, riuscirebbe a loro danno. Per la lezione di questa lettera, messer Girolamo volle non solamente biasimare il cardinale, il quale non difendeva nè sosteneva la ragioni della patria, ma messer Marco e Matteo Dandolo, che nella stessa mala opinione erano incorsi, l' uno a Bologna, e l'altro a Venezia: tanto più degni di biasimo del cardinale, quanto che meno erano obbligati a tener le ragioni del pontefice che il cardinale, il quale, sebbene sentiva contro la patria, nondimeno sentiva per il pontefice che gli era signore; motteggiando con sdegno, che le opinioni che si trattavano per giornata nel Senato, fuori di quello si sapevano per cagione di molti, i quali senza loro vergogna ardivano scriverle ai suoi ed agli amici e ai parenti; dal che nasceva la durezza del pontefice in questa materia.

Rispose alle ragioni del Pesaro, per l'opinione di tutti

i Savi, messer Francesco Venier, savio di Terraferma. Li fondamenti della quale risposta furono: che messer Girolamo si poteva comparare ad un medico troppo pietoso, il quale, per essere più del dovere nelle sue cure compassionevole, riduceva a mal termine gl' infermi; conciossiachè con questi lenimenti di voler conservare alla Repubblica due città, disturbava la conclusione della pace, tanto necessaria a tutti e massime alla Signoria nostra. E qui si diffuse assai, servendosi più fiate della metafora del medico: e che di ragione le dovevamo restituire, perciocchè le avevamo tolte nel tempo che il pontefice era prigione; a cui, parlando il vero, avevamo fatto intendere che le renderessimo, uscito che fosse del Castello di Roma; sebbene, per far belle le nostre ragioni, ora si parlasse altrimenti: e perciò, sebben le ragioni che in nome nostro si allegavano col pontefice, facevano per noi nel primo aspetto, nondimeno non dovevamo fermarci in quelle, per non disturbare la pace tanto salutare e necessaria alla conservazione di tutta Italia, e forse più a noi, che a tutti insieme e a ciascuno degli altri.

Messer Piero Mocenigo, figliuolo di messer Leonardo, ritrovandosi nel Senato come provveditore del Comune, parlò nell' opinione del Pesaro cogli stessi fondamenti e con diffuso sermone; mostrando la pace essere necessaria ed utile, ma con li debiti modi; chè lo spogliarsi di due città così prestamente, non era onesto nè lecito; anzi inonesto e contro la dignità dello Stato. E volendo messer Leonardo Emo parlare in questa materia, per essere l'ora tarda, ne fu differita la deliberazione al giorno seguente.

Ai dieci di novembre, tutti i Savi di collegio dell' una e dell' altra mano, eccetto il Pesaro, proposero di scrivere all' oratore, che dovesse presentarsi al pontefice e dirgli: poichè la illustrissima Signoria ha vista la risoluzione di Vostra Santità di volere al tutto Ravenna e Cervia, per non contrapporsi al suo volere, ha deliberato di renderle

nella conclusione della pace, servandosi le ragioni che ha sopra quelle, da essere in tempo più opportuno riviste e giudicate. E dipoi, dovessero pregare la Santità sua, che si degnasse favorire le nostre differenze coll' Imperatore nel maneggio della pace. Fatto questo officio col pontefice, andasse subito a Cesare, e comunicassegli la presente deliberazione. Il Gradenigo parlò in nome di tutto il Collegio; replicando le ragioni dette dal Dandolo e dal Veniero. Il Pesaro fece rileggere la sua opinione, letta il giorno inanzi al Senato; e appresso una lettera indirizzata ai capi del consiglio dei Dieci, per la quale era scritto: che le cose di Firenze stavano in peggior stato di quello che sinora si era divulgato; e di poi replicò la difesa della sua opinione in conformità delle cose dette nel giorno inanzi. Mandate le parti, fu di largo giudizio deliberata l' opinione del Collegio, con ballotte circa centoquarantuna; quelle della opinione del Pesaro furono forse quarantadue, e alcune non sincere.

Ai dodici di novembre si lessero nel Senato lettere di messer Gasparo Contarini, nelle quali vi era: che essendosi egli ritrovato col pontefice, Sua Santità gli dimandò, se credeva che la Signoria sospendesse per ora le armi; ed avendo lungamente parlato sopra di ciò, esso gli aveva risposto: «< di tregue ovvero di sospensione di arme io non ho commissione alcuna, ma farò intendere alla Signoria quanto la mi ha detto; e Vostra Santità ne saprà poi la risposta ». Egli scrive appresso, che, considerando sopra questa proferta del pontefice, giudicava che l'abbia fatta per ottenere da Cesare, fatte le tregue, più facilmente, che le genti che sono in Lombardia, vadano in Toscana all'impresa di Firenze (1). Scrive ancora che, avendolo il pontefice invitato ad andare, la seguente mattina a buon'ora, all'alloggiamento del gran cancelliere, e lo stesso avendogli mandato a dire

(1) Il principe d'Oranges si era già accampato intorno a Firenze li 24 di ottobre.

il prefato cancelliere, vi andò nel levar del sole. In questo luogo erano ridotti monsignor di Prato e monsignor di Granvella (1); e dopo essersi seduti e che il gran cancelliere ebbe detto alcune parole pertinenti alla guerra ch'era stata fra Cesare e la Signoria, messer Gasparo disse: « Ogni volta che uno piglia le armi contro l'altro, o le piglia per odio che gli ha, o per ottenere alcuna cosa, o per difendersi, o per timore. Che per odio la illustrissima Signoria non abbia preso le armi contro l' Imperatore, è cosa certa; perciocchè in ogni tempo l'ha avuto in somma riverenza ed osservanza; avendo sentito delli suoi prosperi successi quell'allegrezza che si conviene. Che similmente non le abbia pigliate per ottenere alcuna cosa, è ragionevole; perchè due desidereranno insieme una cosa, fra i quali vi sia egualità: ora si vede che tra la Cesarea Maestà e la Signoria, questa non trovasi, non essendo proporzione alcuna fra la nostra Repubblica, e la grandezza ed autorità di Cesare. Resta adunque di necessità che, se abbiamo tolto in mano le armi contra l'Imperatore, le abbiamo tolte per timore e per volerci difendere dalle sue ch'erano in Italia e minacciavano di voler fare gran cose, come hanno fatto. Ma essendo ora venuta la Maestà Cesarea in Italia con fama di portarle la pace, la Signoria ha mandato a me un ampio potere di concluderla seco con oneste condizioni ». Li Cesarei dissero, che mostrasse questo potere; al che facendosi per allora renitente alquanto messer Gasparo, li Cesarei si guardarono l'un l'altro, quasi accennassero che la sospizione loro era vera, e che la Signoria davvero non volesse la pace, ma che con sole parole mostrasse volerla, per intrat

(1) De Prat, di nazione fiammingo, chiamato dagli Italiani monsignor di Prato, uno dei principali consiglieri di Carlo V, che intervenne anche alla seconda confederazione di Bologna nel 1532.

Niccola Perrenot di Granvelle, borgognone, consigliere dell' imperatore e padre del celebre cardinale di Granvelle. Vedi intorno ad entrambi le Relazioni degli Ambasciatori Veneti presso Carlo V; vol. I e II.

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